Diceva Winston Churchill, gli
italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, e le partite di
calcio come se fossero guerre. Ai tempi del grande statista inglese, l’Italia
si era indubbiamente rivelata un avversario più forte sul campo di calcio che
su quello di battaglia. Ma l’aforisma di Churchill trova fondamento un po’ in
tutta la nostra storia nazionale.
Ci siamo ricordati della bandiera tricolore
solo nelle occasioni in cui la nostra squadra di calcio nazionale ha vinto
qualcosa. D’altro canto, niente ha scatenato la nostra rabbia di cittadini come
una sconfitta degli azzurri in una competizione che conta.
Veniamo da tre anni – per semplificare
il conto, che in realtà sarebbe più lungo – in cui la nostra classe politica ci
ha fatto vivere una delle crisi economiche e sociali più drammatiche di sempre.
Eppure, nessuno che si sia scatenato, al bar o altrove, a dire io avrei fatto
così, avrei tolto questo e messo quello, così non si può andare avanti, tizio
se ne deve andare, caio deve finire di fronte alla disciplinare e guai se non
succede.
Per queste cose, ci vuole invece
una eliminazione al primo turno della Nazionale. Una figuraccia come nessun
altro è stato capace di fare, a parità di eliminazione. Quanta grandeur nel
crepuscolo spagnolo e quanta dignità nell’addio inglese. Non abbiamo convinto
del tutto nemmeno nell’unica vittoria, siamo stati inesistenti con la Costa Rica
(fino a poco tempo fa una specie di Lussemburgo del Sud America) e polli da
infilzare con l’Uruguay.
Torniamo a casa dopo la fase a
gironi, è la settima volta, la seconda consecutiva. Nel 1950, la prima volta in
Brasile, non avevamo saputo far fronte in tempo al venir meno del blocco del
Grande Torino schiantatosi l’anno prima a Superga. La Svezia che ci eliminò, in
compenso, era una squadra migliore di tutte quelle di questo Mondiale in corso
d’opera messe insieme.
Anche la Svizzera che ci sbatté
fuori nel Mondiale casalingo quattro anni dopo era una discreta squadra.
Ballaman & C. sorpresero Boniperti & C., un’Italia che non aveva
trovato ancora – tra Milan, Fiorentina e Juventus – un blocco su cui costruire
una nazionale all’altezza di un grande campionato.
Nel 1958 non ci qualificammo
nemmeno, ma mettemmo in mostra a Belfast i vizi che ci avrebbero condannato a
Santiago del Cile quattro anni dopo. Erano gli anni in cui si credeva che
bastasse naturalizzare oriundi sudamericani, senza riflettere che questi
signori erano già sfamati, carichi di gloria ed interessati il giusto ad una
ptria che era stata quella dei loro nonni, non la loro.
A Santiago facemmo la
prima conoscenza con gli arbitraggi a senso unico. Ken Aston fece a favore del
Cile quello che Byron Moreno fece a favore della Corea 40 anni dopo. Ma noi
glielo permettemmo giocando come peggio non si poteva.
Nel 1966, Edmondo fabbri portò in
Inghilterra una squadra che era già in buona parte quella con cui Valcareggi
avrebbe vinto la partita del secolo e messo paura a Sua Maestà Pelé in Messico
quattro anni dopo. Ma Fabbri aveva idee sue, e riuscì a perdere non solo dalla
solida U.R.S.S. ma anche dall’improbabile Corea del Nord. Il dentista Pak Doo
Ik che segnò il gol a noi fatale divenne comunque un benemerito del nostro
calcio, perché provocò quella chiusura delle frontiere da parte della Federcalcio
che favorì in un periodo abbastanza breve il rifiorire del nostro vivaio.
Nel 1974 gli eroi dell’Azteca
erano invecchiati e dettero un malinconico addio al primo turno ai mondiali
tedeschi, complice una grande Polonia. Nel 1978 però in Argentina c’era una
generazione nuova pronta a raccogliere degnamente il testimone. Una generazione
che avrebbe riportato il titolo mondiale in Italia dopo 44 anni, dopo il gro d’onore
sul prato del Santiago Bernabeu di Madrid.
Nei 24 anni successivi ci eravamo
abituati male, finendo spesso eliminati alle ultime fasi del torneo e soltanto
ai calci di rigore ma soprattutto finendo per rivincere il Mondiale in quel di
Berlino, sempre ai rigori e stavolta senza che nessuno tremasse. Quattro anni
dopo, in Sudafrica, l’errore fu pensare che il tempo non fosse passato né per
Lippi né per la sua squadra. Il girone era molto più facile di quello di adesso
in Brasile, ma finimmo fuori con due soli punti. Stavolta con tre.
I vecchi eroi sono stanchi, e si
guardano indietro alla ricerca di giovani a cui passare il testimone. Non ce ne
sono, o sono stati lasciati a casa da un C.T. rimasto legato al suo calcio da
oratorio. Cesare Prandelli è sempre stato uno bravo a “cavare il sangue dalle
rape”, a motivare cioè e far rendere al meglio giocatori mediocri. Con una
Fiorentina non trascendentale sfiorò i quarti di Champion’s League nel 2010, con
una Nazionale più o meno come questa sfiorò il titolo a Euro 2012. Ma le sue
squadre, a ben vedere, sono composte sempre appunto di rape, giocatori che non
sarebbero nemmeno presentabili su una ribalta internazionale.
Se a Firenze poteva dare la colpa
al “braccino” dei della Valle, qui in Nazionale l’unico responsabile è lui. E’
lui che lascia in panchina un Alberto Aquilani mortificandolo, è lui che lascia
a casa un Giuseppe Rossi o un Mattia Destro avvilendoli. E’ lui che dice no a
Totti e Toni perché vecchi, salvo rendersi conto che a questi ritmi e su questi
palcoscenici sarebbero stati ancora i migliori. E gli avrebbero forse salvato
la panchina.
Non c’è un Fulvio Bernardini all’orizzonte
stavolta, anzi i migliori allenatori, da Capello ad Ancelotti, sono tutti sotto
contratto e senza nessun motivo per non rispettarlo. Ma soprattutto non c’è la
generazione del 1974, che fu buttata in campo e fece vedere le streghe alla
prima partita a Cruyff & soci, e otto anni dopo vinse in tromba un Mondiale
come se ne sono visti pochi. E le frontiere, sic stantibus rebus, non si possono chiudere più.
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