Eravamo un paese
sconfitto, umiliato. Uno dei tre, quelli dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo, che
portavano il tremendo peso morale dell’immane tragedia appena conclusasi, la
Seconda Guerra Mondiale. Come avrebbe detto Alcide De Gasperi alla Conferenza
di Pace di Parigi nel 1947, l’Italia non poteva sperare nella benevolenza di
nessuno degli altri paesi. Solo nel loro interesse semmai a creare un assetto
internazionale post-bellico più solido possibile, anche alla luce delle nuove tensioni
che stavano emergendo fra le nuove grandi potenze uscite dalla guerra, che di
lì a poco avrebbero dato luogo ad un nuovo conflitto, anche se di tipo diverso:
la Guerra Fredda tra USA e URSS.
Vittorio Emanuele III e Mussolini |
Nessuno voleva bene all’Italia
nell’immediato dopoguerra, a parte gli americani, con i quali la conflittualità
era durata troppo poco perché potesse dare origine a una vera ostilità, e che dovevano
fare anche i conti con la moltitudine di italo-americani che avevano combattuto
in prima linea lungo tutta la penisola,
e che erano comprensibilmente rimasti legati a loro paese d’origine. Gli altri Alleati,
inglesi e francesi ci detestavano, i primi per la parte svolta nei
bombardamenti su Londra a fianco della Luftwaffe, il cosiddetto blitz, e
per l’attacco all’Impero Britannico in Egitto, i secondi per la pugnalata alle
spalle del 1940. I russi invece erano solo interessati a spostare il confine
con l’Occidente il più ad ovest possibile, e solo in tal senso erano
interessati al destino dell’Italia.
Quel destino era assai incerto, e
paradossalmente per l’Italia la Guerra Fredda fu una manna. Come sarebbe
successo a Germania e Giappone, odi, rancori e strascichi furono messi ben
presto da parte, perché c’erano nuovi nemici da affrontare all’orizzonte. L’US
Army e l’Armata Rossa si erano incontrate sull’Elba il 25 aprile
1945, e lì sarebbero rimaste per i successivi 40 anni dopo aver polverizzato la
Wehrmacht. Su quel confine sarebbe scesa nel 1947 quella che Winston Churchill
avrebbe definito la Cortina di Ferro, che avrebbe condizionato la vita
di centinaia di milioni di cittadini europei e le loro scelte fino a Gorbaciov
e alla caduta di quel Muro che sarebbe stato costruito a Berlino per dare
visibilità alla nuova realtà dell’Europa: non più centro del mondo ma
continente a sovranità molto limitata.
Alcide De Gasperi |
Per l’Italia, la scelta epocale
in quegli anni fu in primo luogo quella della forma di governo. La democrazia
restituita dai vincitori a un paese in cui per vent’anni aveva deciso tutto uno
solo per tutti richiedeva che fossero sciolti due nodi fondamentali:. Il primo
era quello della nuova Costituzione che avrebbe dovuto sostituire lo Statuto
Albertino, la vecchia gloriosa Carta del 1848 che aveva accompagnato degnamente
il Risorgimento e l’avvio dei primi passi della nuova nazione italiana ma che
aveva mostrato tutta la sua drammatica fragilità allorché la politica aveva
cessato di essere un fatto riservato alle elites borghesi e vi si erano
affacciate le grandi masse. Il secondo era quello del Capo dello Stato: Monarchia
o Repubblica?
Contrariamente a molti paesi che
avevano sofferto la tragedia del conflitto mondiale, in Italia il Re non era
stato il simbolo dell’unità e della dignità nazionale pur messe a dura prova da
nemici dall’apparato bellico più forte, ma con il sostegno a Mussolini prima e
con la fuga a Brindisi poi (dopo avere inutilmente tentato di rinnegare e mettere
fuori gioco quel Duce che aveva incaricato legalmente come proprio Primo
Ministro vent’anni prima e che adesso era diventato troppo scomodo per lui e
perfino per i camerati fascisti) Vittorio Emanuele III si era giocato
definitivamente il sostegno di una gran parte della popolazione. Il paese era
spaccato in due anche su questa questione, e le forze politiche riflettevano la
situazione popolare.
Palmiro Togliatti |
La nascente forza egemone, la
Democrazia Cristiana di De Gasperi, era divisa al suo interno poiché tra i
cattolici ed i moderati erano egualmente rappresentati tanto i monarchici che i
repubblicani. Il Partito Comunista italiano di Togliatti aveva fatto una scelta
legalitaria in linea con la politica dell’URSS, e ne era risultato altrettanto
diviso al suo interno: da una parte la base, che voleva la svolta repubblicana,
dall’altra la nomenklatura, che accettava la tesi staliniana secondo cui la Monarchia
avrebbe finito di discreditarsi preparando il campo ad una situazione
favorevole alla rivoluzione popolare, e comunque nel frattempo non si doveva
interferire con il controllo americano dell’Italia, per favorire analogo
atteggiamento degli USA verso la sfera di influenza sovietica.
Socialisti e repubblicani erano
per la Repubblica senza se e senza ma, mentre liberali e monarchici erano per
il mantenimento della forma di governo sotto la quale l’Italia era stata
unificata. Magari, si valutava, non più incarnata dal discreditato Vittorio Emanuele
III, ma piuttosto da suo figlio Umberto il Principe di Piemonte, che insieme ala
consorte Maria José del Belgio aveva cercato di salvare quanto possibile
dell’onore dei Savoia e del futuro della istituzione monarchica in Italia.
Maria José aveva giocato un ruolo di primo piano nella complessa trattativa
segreta che aveva portato alla caduta del Fascismo e all’uscita dalla guerra a
fianco di Hitler, e si sperava che questo – insieme all’immagine pressoché intatta
del marito – giocasse a favore del partito monarchico.
Gli alleati, come detto, avevano
la loro attenzione focalizzata su altre questioni, e sostanzialmente si tennero
fuori dalla disputa. I Britannici erano monarchici per forza di cose, i
Sovietici in quel momento lo erano per interesse. I Francesi sempre in quel
momento ci consideravano dei traditori che non meritavano nessun riguardo, ma
di certo non avevano particolari predilezioni per i Savoia. Gli americani erano
per la Repubblica altrettanto per forza di cose, ma pur avendo la voce in
capitolo principale non erano pronti in quel momento, nella primavera del 1946,
a forzare la mano. Gli italiani furono quindi lasciati abbastanza liberi di
vedersela per proprio conto. O almeno così parve.
Umberto II lascia l'Italia |
Mentre le forze politiche, almeno
quelle più importanti preferivano non prendere posizione per non legare il
proprio simbolo ad un’eventuale sconfitta, ii monarchici giocarono la carta
dell’abdicazione del vecchio Re in favore del nuovo. Con atto privato presso un
notaio di Napoli (un gesto in carattere con lo stile sui generis di
colui che aveva regnato sull’Italia per 40 anni), Vittorio Emanuele III il 9
maggio 1946 cedette la corona al figlio Umberto, che divenne il secondo di
questo nome, dopo il nonno ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci, e partì per
l’Egitto in esilio. Fedele al motto savoiardo che in Casa Savoia si regna
uno alla volta, Vittorio Emanuele aveva tenuto Umberto completamente fuori
dalle questioni di stato, salvando così involontariamente la sua immagine.
Umberto era consapevole che per
quanto sostanzialmente incolpevole si trovava a regnare su un paese che aveva
imparato a detestare la Monarchia, prima a causa di una dittatura fortemente
voluta e poi della guerra. Tra gli esiti probabili della contesa politica, di
cui quella sulla forma di governo era solo un aspetto, c’era da mettere in
conto anche una guerra civile, sulla falsariga di quanto stava accadendo nella
vicina Grecia. Fu così che nel convocare i comizi elettorali per la nuova Assemblea
Costituente e nell’indire il Referendum istituzionale (che sarebbe rimasto il
primo e l’ultimo della storia italiana fino ad adesso) sulla forma di governo,
Umberto di Savoia scelse di usare toni soft, promettendo di accettare il
verdetto popolare, qualunque esso fosse stato.
I seggi furono aperti la mattina
del 2 giugno 1946, e secondo una prassi che sarebbe rimasta anche in seguito si
votò anche nella giornata seguente. Lo spoglio delle schede cominciò il giorno
4, la conta dei voti prosegui su doppio binario (avvalendosi di calcolatrici e
di conteggi manuali nello stesso tempo) per due giorni, ma per quanto già la
sera del 5 alcuni quotidiani avessero anticipato che “la Repubblica è in
vantaggio”, il risultato finale dovette attendere il 10, allorché la Corte
di Cassazione proclamò (di fatto, in attesa della proclamazione formale di
diritto) che gli italiani avevano optato per la forma di governo repubblicana
con una maggioranza di 12.718.019 contro 10.709.423. I monarchici parlarono
subito di brogli, e proposero di fare ricorso alla stessa Corte di Cassazione
(quella Costituzionale era di là da venire) per il riconteggio. Il ricorso non
ci fu mai, e del resto i brogli non vennero mai accertati.
Con decisione che teneva conto
comunque più delle esigenze di ordine pubblico (a Napoli, città di fede
monarchica, c’erano già stati scontri di piazza con la polizia e diversi morti)
che del rispetto della forma e della sostanza della legge, il governo nella
notte tra il 12 ed il 13 giugno decise di proclamare la Repubblica, attribuendo
al Presidente Alcide De Gasperi la funzione provvisoria di Capo dello Stato. Il
13 giugno, dopo un breve comunicato con cui accettava il risultato del pronunciamento
popolare e invitava tutti a fare altrettanto, sciogliendo il popolo italiano
dal giuramento di fedeltà al Re e limitandosi a stigmatizzare il semmai
comportamento del governo che aveva voluto precorrere i tempi, Umberto II di
Savoia si imbarcò a Ciampino su un aeroplano diretto in Portogallo, dove avrebbe
trascorso in esilio i successivi 40 anni. Il Re di maggio onorò la
Monarchia nel suo ultimo giorno come mai suo padre aveva saputo fare nei 46
anni precedenti.
Il 18 giugno la Corte di
Cassazione proclamò definitivamente validi i risultati del referendum
istituzionale, e di conseguenza la Repubblica Italiana. Il 28 la neocostituita
Assemblea Costituente si insediò ed elesse come Capo Provvisorio dello Stato il
giurista napoletano Enrico De Nicola, uomo politico monarchico che era già stato
Presidente della Camera dei Deputati prima della Marcia su Roma. Per andare
a regime, la nuova Repubblica avrebbe dovuto attendere il 1948, con la
promulgazione della Costituzione e l’elezione del primo Parlamento
repubblicano. Ma i passi fondamentali erano stati fatti, e la Repubblica - il
cui compleanno è rimasto quel 2 giugno in cui i primi italiani, uomini e per la
prima volta anche donne, si affacciarono ai seggi elettorali riaperti per la
prima volta dopo 20 anni di dittatura – poteva finalmente camminare con le
proprie gambe e ridare all’Italia un’immagine accettabile nel consesso delle
nazioni civili.
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