Arriva a Malpensa l’aereo degli
azzurri. Sorpresa, ad aspettarli non c’è nessuno. Non siamo più quelli che
tiravano i pomodori per un secondo posto, Mondiali del 1970, Italia sconfitta
dal più grande Brasile di tutti i tempi e solo a 30 minuti dalla fine. Almeno
per certe cose siamo cresciuti, maturati. Oggi è giornata di lavoro, tutti
hanno qualcosa di più importante da fare che andare a vedere scendere dalla
scaletta una delle più infelici squadre azzurre di tutti i tempi.
I romani proseguono per
Fiumicino, i milanesi scendono. Da una parte la rappresentativa nazionale
italiana, dall’altra Mario Balotelli. I primi hanno il buon gusto di
presentarsi nella divisa ufficiale, almeno questa (forse solo questa)
impeccabile. Lui, “l’altro”, no. Berrettino da rapper, capelli a strisce
colorate, maniche di camicia arrotolate e cuffiette. Se voleva tagliarsi dietro
gli ultimi ponti, ci riesce benissimo. I “fratelli neri”, come direbbe lui, forse
non ci troverebbero nulla da dire. I fratelli italiani, diciamo noi, ormai sicuramente
hanno finito qualsiasi commento.
Su una cosa ha ragione Mario. Non
è lui la causa principale del fallimento dell’Italia a questi Mondiali. Il
discorso è più complesso, è questa Italia che con il suo fallimento come
società civile prima ancora che come comunità sportiva ha provocato la nascita
ed il prosperare di personaggi come lui. Che riunisce in sé in perfetta sintesi
due dei mali principali del nostro paese.
Il primo è quell’atteggiamento
politicamente corretto e umanamente infingardo che abbiamo verso tutti coloro
che – a torto o a ragione, il discorso è lungo e non è questa la sede –
arrivano nel nostro paese da altri posti del mondo meno fortunati o che
comunque fanno parte di minoranze etniche. A costoro, il politically correct prevede che nessuno si azzardi a prescrivere o
rimproverare o addirittura contestare alcunché, a pena di essere tacciati di
razzismo e tutto quello che ne segue.
Il secondo è l’atteggiamento
profondamente sbagliato che abbiamo assunto nei confronti dell’ultima
generazione, quella dei nostri figli. Nel presupposto esiziale che fosse giusto
risparmiare loro tutte le difficoltà – anche minime e comunque funzionali ad un
corretto sviluppo della personalità individuale – che abbiamo incontrato noi al
tempo della nostra crescita, ne abbiamo fatto delle persone incapaci di
affrontare qualsiasi ostacolo, anche il più insignificante. E che reagiscono
adesso ad ogni nostra sollecitazione con un ribellismo di pura facciata,
favorito dall’isolamento sotto le cuffiette dell’iPod.
Mario Balotelli è una via di
mezzo tra l’individuo che ha capito benissimo le contraddizioni e le ipocrisie
della nostra società e che la sfrutta senza scrupoli, in modo altrettanto contraddittorio
ed ipocrita, per non pagare dazio, mai. Ed è insieme l’individuo che incarna
perfettamente il giovane protagonista del saggio di Michele Serra Gli sdraiati. Il suo problema è che ha
cercato (e probabilmente cercherà) per tutta la vita qualcuno capace di
metterlo di fronte anche rudemente ad un sistema di regole – magari ricorrendo
al benedetto ceffone che ha risolto tante situazioni ai nostri genitori nel
difficile e meritorio compito di educarci – e purtroppo per lui ha trovato solo
il dorato mondo del calcio, che se non sei già più che strutturato per conto
tuo finisce per rovinarti irreparabilmente. In tutti i sensi.
Se ne va da solo Mario, verso la
sua Motown virtuale, mentre gli altri azzurri sfilano mesti verso l’uscita. Finisce
così l’avventura di Cesare Prandelli sulla panchina azzurra, con dei saluti
frettolosi ai suoi ragazzi, figli e figliastri, campioni e promesse mancate.
Tutti voluti da lui, tutti affondati insieme a lui, meno quei quattro o cinque
che avevano già vinto senza di lui. La notte tra l’altro ha portato consiglio
ad Andrea Pirlo, che si è detto disposto a mettersi a disposizione del prossimo
CT, chiunque sia, se lo vorrà.
Già, il prossimo CT……. Speriamo
che la Russia vada fuori stasera, così si libera Fabio Capello, l’unico insieme
a Carlo Ancelotti dei nostri tecnici che gioca per vincere e sa come farlo. L’unico
che può rifondare questa baracca. Parla Albertini, che nessuno ha capito ancora
cosa ci stia a fare ma che ha tutte le intenzioni di continuare a farlo: “Per
il prossimo allenatore della nazionale, tempi stretti”.
E’ già stata fissata un’amichevole
a settembre contro l’Olanda, e chissà se gli Orange a quell’epoca avranno sulle maglie la loro prima stella.
Glielo auguriamo, dopo una vita da secondi, e sarebbe un onore essere i primi a
festeggiarli. Ma francamente sembra tanto un tentativo di creare un ricorso
storico. La prima, bellissima uscita della Nazionale rifondata da Fulvio Bernardini
nel 1974 fu appunto a Rotterdam contro Cruyff e compagni. Antognoni e gli altri
ragazzi azzurri non sfigurarono pur perdendo, e uscirono dal campo tra i
complimenti di avversari che erano già diventati leggenda. Per poi diventare
otto anni dopo leggenda anche loro.
Il ciclo che si deve aprire
adesso è molto più problematico, perfino rispetto a quattro anni fa. Allora, un
Cesare Prandelli contattato da una Federazione in stato confusionale prima
ancora del disastro sudafricano del Lippi-bis e stimolato a rispondere alla
chiamata da Della Valle che non vedeva l’ora di liberarsi di lui e che gli fece
ponti d’oro inaugurò la sua serie andando a perdere contro un avversario contro
cui non avevamo mai nemmeno sognato di perdere nei peggiori incubi, la Costa d’Avorio
di Drogba (e poco altro). Ma c’era almeno l’illusione di un ricambio
generazionale, anche se poi a ben vedere questo ricambio era sostanziato da
trentenni come Cassano e Diamanti o da giovani problematici e ingestibili come
Mario Balotelli.
Il disastro brasiliano ha
spazzato via queste ed altre illusioni, ed ha stabilito nuove certezze, oltre a
lasciare un conto da pagare che si aggira sui cinque milioni di euro, per
quindici giorni di soggiorno. E’ un disastro epocale come quello della Corea
nel 1966, ma stavolta non si possono chiudere le frontiere, perché nel
frattempo ci siamo costruiti un mondo molto più complicato e solo apparentemente
più evoluto. La politica sportiva, come qualsiasi politica, non viene più
decisa a Roma, ma a Maastricht e Bruxelles. Vanno trovate altre soluzioni, che
comunque contemplino la rimessa in auge, o almeno in funzione dei nostri vivai.
Continuare a riempire le nostre
squadre ed il nostro campionato di stranieri per la maggior parte poco più che
mediocri fa di sicuro la fortuna di direttori sportivi e procuratori, che
viaggiano a percentuali (in chiaro e in nero), ma difficilmente farà la fortuna
del nostro calcio. Perché oltre a togliere spazio ai nostri ragazzi nelle
squadre di club offre a questi pedatori che ai tempi d’oro avrebbero durato
fatica a trovare posto nella nostra serie B l’occasione di migliorarsi
apprendendo tecniche e tattiche più evolute per poi rivoltarcele contro in
occasione delle prossime competizioni internazionali.
Mancano quattro anni a Russia
2018. A prescindere da dove sarà ad allenare Fabio Capello, se le cose non
cambiano trovare undici ragazzi in grado di onorare la maglia azzurra sarà un’impresa
disperata. Come passare un turno ad un Mondiale.
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