Aveva detto Neymar nella
conferenza stampa della vigilia: “Il momento è finalmente arrivato, speriamo
che queste ultime ore passino in fretta”. Verrebbe voglia di rispondergli, se
il buongiorno si vede dal mattino speriamo che sia questo mese a passare in
fretta.
Brasile 2014 comincia alle 20,00
italiane circa, dopo che da pochi minuti la polizia locale ha appena finito di
manganellare la popolazione scesa in piazza per protestare in mondovisione per
l’ennesima volta contro un Mondiale che, se le cifre riportate sono esatte, il
55% degli abitanti di quello che una volta era l’El Dorado del
calcio sta vivendo come una mano di vernice data frettolosamente su un muro
male intonacato e dalle fondamenta marce.
Teatro della protesta e relative
manganellate, che i network televisivi in generale si guardano bene da
trasmettere per non turbare la liturgia del pallone che si ripete, è quella
spiaggia di Copacabana diventata attraverso i decenni paradigma di tutto ciò
che significa Brasile nell’immaginario di torme di vacanzieri e di turisti del
sesso di ogni parte del mondo. Il popolo brasiliano sta dimostrando che il
calcio non è più il suo oppio. Il mondo per ora preferisce tenere le telecamere
puntate sui 65.000 che gremiscono gli spalti dello stadio di San Paolo, dove di
lì a poco le forme un po’ tendenti all’inquartamento di Jennifer Lopez, ma
sempre piacenti, daranno il via alla ventesima edizione della Coppa del Mondo
di calcio.
La cerimonia d’apertura conferma
quanto già si temeva. A memoria d’uomo è difficile ricordarne una così brutta,
qualunque cosa si trattasse di aprire o di chiudere. L’impressione è quella di
un gigantesco “facite ammuina” in stile marina borbonica, il tutto
ammantato di un che di posticcio e raffazzonato. I colori sono tanti, come lo
erano nel Paese dell’Arcobaleno, il Sudafrica, ma lì pulsava la vita, esplodeva
la voglia di vivere di una nazione che finalmente si affacciava al mondo
moderno con la faccia pulita e gloriosa di Nelson Mandela.
Qui la sensazione è di essere ad
una carnevalata allestita anche male. Chiunque abbia un figlio alle elementari
e abbia assistito ad un saggio di fine anno sa che si può fare molto meglio,
anche con gli scarsi fondi a disposizione delle scuole italiane. Perfino la
canzone-inno dei mondiali è brutta, non ce ne voglia Jennifer. La faccia poi è
quella di Sepp Blatter che in tribuna VIP mastica un chewing gum in
perfetto stile Obama. Del suo competitor Michel Platini in
compenso non c’è traccia, forse è in Qatar a veder di sbrogliare una grana
grossa come una casa. E’ il ventunesimo secolo, bellezze, e il convento passa
questo. Tra quattro anni, se vi consola, siamo in Russia, e se Soci mi dà tanto
abbiamo detto tutto.
A poche ore dal fischio d’inizio
ancora nello stadio paulista non funziona l’impianto elettrico. Squadre di
operai si affaccendano ancora alacremente a fissare moquettes, verniciare muri
e porte e smontare tubi Innocenti. Da Manaos arriva la notizia incredibile che
lo stadio dove Italia e Inghilterra si affronteranno nel loro esordio è privo
di erba. Si gioca nel campo del prete, un tuffo nell’infanzia che ognuno di noi
è in grado di apprezzare, struggendosi di nostalgia.
Non era mai successo che un paese
si presentasse all’avvio di una manifestazione sportiva organizzata in queste
condizioni. La figuraccia planetaria va ad aggiungersi al ricco palmarés dei pentacampeaos.
In compenso la F.I.F.A. brevetta la bomboletta spray per la distanza della
barriera sulle punizioni e la goal line technology, l’apparecchio
che stabilirà in tempo reale se un gol è fantasma o no. Il gol rubato
all’Inghilterra nella scorsa edizione contro la Germania non si ripeterà, come
già succede nel tennis l’occhio di falco dirà subito come stanno le cose. Il
pallone calciato da Lampard era dentro di un metro, Larriondo non era dotato di
GLT (come molti suoi colleghi a giro per il mondo), ma di buon senso sì, doveva
esserlo. Anche se è una merce che ancora nessuno alla F.I.F.A. ha pensato di
brevettare. Speriamo bene.
Scendono in campo le squadre, il
Brasile ed il “Brasile d’Europa”, la Croazia. Sul volto dei giocatori carioca si
legge benissimo la tensione fortissima rispetto a ciò che stanno vivendo e a
ciò che li aspetta. Neymar & C. sanno di non poter fallire, un altro 1950
stavolta sarebbe un disastro ben superiore al Maracanazo. L’altra
volta i suicidi accertati furono circa 200, stavolta si rischia una rivolta
popolare, o perlomeno che niente possa arrestare la rivolta popolare che già
c’é. I ragazzi in verdeoro sono buoni giocatori, ma da qui a diventare Pelé o
Garrincha ce n’è da mangiare di pappa. I croati non tremano, e senza l’arbitro
Nishimura stasera finirebbe male, già alla prima uscita.
Dopo il vantaggio della Croazia,
del Brasile si vede soprattutto la gomitata di Neymar ad un avversario. Si
fosse chiamato De Rossi o Tassotti, il mondiale carioca avrebbe
già preso una brutta china e il “figlio del popolo” vedrebbe già da oggi il
resto delle partite alla televisione. Invece resta in campo è può beneficiare
di una papera di Pletikosa, portiere croato non certo paragonabile a un Dasaev
o a uno Zamora. Sul rigore concesso nel secondo tempo ai padroni di casa per il
volo d’angelo di Fred, che dire? E’ uno di quelli che “si possono non dare”. La
classica regola che per gli amici si interpreta e per gli altri si applica. Se
ti chiami Fred e sei brasiliano, l’arbitro si chiama Barney e ti fischia il
rigore.
Andiamo avanti. Dalle magagne
degli altri a quelle di casa nostra. Stasera tocca alla Spagna contro l’Olanda,
la finale di quattro anni fa qui è il primo turno. A noi invece tocca domani
notte, contro l’Inghilterra in attesa di Uruguay e Costarica, complimenti a chi
fa i sorteggi. Oddio, non è che questa Italia sia quella del Sarria di
Barcellona, né le sue avversarie sono il Brasile di Zico e l’Argentina di
Maradona. Forse giocare sulle zolle di terra ci dà un vantaggio in più, gli
inglesi sono ormai abituati a stadi che sono tavoli da biliardo, i campi di
patate si confanno più a noi.
Prandelli si dice preoccupato,
ieri si è fermato De Sciglio, dopo Montolivo e dopo il gran rifiuto a Pepito
Rossi che hanno depauperato un parco giocatori già al minimo storico per
l’Italia. Fossimo in lui ci saremmo preoccupati quattro anni fa, il primo
giorno in cui assunse l’incarico. Ormai è tardi, il fondo del barile è
raschiato, le scelte – giuste o più probabilmente sbagliate – sono state fatte.
Lo “stellone” ha prodotto tanto due anni fa in Ucraina, difficile che si ripeta
a così breve distanza, ma con Prandelli non si può mai dire.
Stiamo a vedere. A tornare a casa
ci si mette un attimo, non più le tre settimane di sessant’anni fa. E a Manaos
almeno potremo dire di essere stati sui luoghi del mitico Mister No.
Una postilla sulla R.A.I., i cui inviati hanno già fatto vedere che si sono
presentati a questo Mondiale con lo spirito di un pullman di turisti di mezza
età recapitati ad un centro benessere thailandese. Lo slogan imperante è
“Brasile è bello”. Il resto non esiste, dalla polizia che manganella
all’arbitro che fischia a senso unico.
Al Giro d’Italia campeggiava uno
striscione, “La R.A.I. siamo noi”, in segno di protesta contro la
riforma ventilata da Renzi. Caro Presidente del Consiglio, se questa dev’essere
la R.A.I., chi siamo noi davvero non lo sappiamo più.
Nessun commento:
Posta un commento