Di tutte le disfatte (e ce ne
sono state) subite dall’esercito italiano – o per meglio dire dall’Italia come
comunità civile e politica prima ancora che militare – ha finito per diventare
quella per antonomasia. C’era stata
Caporetto, ma era stata una sconfitta militare, lo Stato Maggiore e l’Esercito
avevano comunque reagito, era una guerra n qualche modo sentita per le sue
implicazioni risorgimentali. Il “popolo del Piave” aveva stretto i denti, e sul
Piave aveva serrato le fila. Poi era venuta Vittorio Veneto, la vittoria nella
Grande Guerra, Trento e Trieste, la fine del Risorgimento, il trionfo sull’odiato
invasore germanico dopo 1.500 anni circa.
Vittorio Emanuele III di Savoia e Benito Mussolini |
L’8 settembre no. Non c’è mai
stata possibilità di riscatto, di rivalsa. Nemmeno di revisionismo storico,
tanto di moda ai giorni nostri. L’8 settembre fu la débacle italiana sotto tutti i punti di vista. Quella forse da cui
non ci siamo ripresi mai più, in cui abbiamo perso quel poco di autostima
faticosamente rimessa insieme durante le sanguinose e sofferte guerre
risorgimentali.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, il
mito della “vittoria mutilata” – assieme a tante altre cose – aveva finito per
imporre all’Italia la Seconda. Il regime fascista, incarnato da un Mussolini
che fino al 1936 era stato bene o male in sintonia con un paese con voglia
scomposta ma comunque legittima di rinascita e di crescita, aveva perso il
contatto con il mondo moderno all’epoca della conquista dell’Impero. L’alleanza
con Hitler, impulsivamente decretata dal Duce dopo che le potenze coloniali
avevano storto la bocca alla nostra conquista dell’Etiopia, aveva partorito
questo mostro, una guerra combattuta acanto a un nemico storico, mal digerito, per
di più reso ancora più odioso da un regime – quello nazista – diventato agli
occhi del mondo la personificazione del male assoluto.
La guerra nazifascista, a cui l’Italia
aveva scelto di partecipare nel modo peggiore, entrandovi quando gli Alleati
vivevano il loro momento più difficile ammassati sulla spiaggia di Dunkerque,
aveva finito per concludersi come era fatale che fosse. La sottovalutazione di
nemici molto più potenti di quanto non apparisse al provinciale condottiero di
Predappio ed al suo entourage – in primis quegli Stati Uniti d’America che
erano chiaramente anche all’epoca la potenza industriale emergente e la
probabile superpotenza del futuro – aveva impelagato un’Italia che a fatica
aveva retto la guerra coloniale e la Guerra di Spagna in aiuto dei franchisti
in qualcosa che era più grande di lei.
Benito Mussolini e Pietro Badoglio |
Hitler aveva dovuto rilevare e
fare proprie tutte le “imprese” di Mussolini, che diversamente da Franco non
aveva saputo opporgli un “no”. L’Italia era diventato quello che Churchill
aveva definito con la consueta lucidità il “ventre molle dell’Asse”. Il bluff
aveva retto finché Erwin Rommel – il vecchio nemico che aveva sfondato a
Caporetto – aveva tenuto il Nordafrica. Poi la Sicilia era diventata un
bersaglio fin troppo facile, e da lì prima l’Italia continentale e poi l’Europa
sotto il tallone nazifascista.
Il 10 luglio Eisenhower aveva
lanciato lo sbarco a Gela. Da quel momento era chiaro che l’Italia era
sconfitta. Il prezzo da pagare dipendeva solo da lei. Perfino Mussolini, in uno
degli ultimi sprazzi di buon senso e lucidità, avvertiva la necessità di
separare le sorti dall’alleato improvvidamente scelto. Ma pochi giorni dopo,
incontrandolo, non seppe far altro che ascoltarne l’ennesimo monologo in
tedesco. E allora toccò ad altri prendere in mano le sorti di una patria sull’orlo
del baratro.
La Principessa di Piemonte Maria
José del Belgio, figlia di un re che non si era arreso ai nazisti finendone addirittura
prigioniero, da tempo conduceva trattative segrete con gli angloamericani.
Analoghe iniziative erano condotte dalla Santa Sede attraverso il Cardinale
Montini, il futuro Papa Paolo VI. Vittorio Emanuele III aveva sempre fatto
orecchie da mercante a tutto questo, ma di fronte all’eventualità di finire
come molti colleghi europei si risolse ad agire, previo pronunciamento del Gran
Consiglio del Fascismo, un organo assurto al rango di costituzionalità a
seguito delle modifiche apportate con la sua acquiescenza allo Statuto Albertino
dal regime fascista.
Il pronunciamento arrivò la notte
tra il 24 ed il 25 luglio 1943. Dino Grandi e gli altri gerarchi sconfessarono
Mussolini, che il giorno dopo si recò dal Re immaginando di dover rassegnare le
dimissioni da quello che in fondo era un incarico di governo conferitogli a
scadenza ventennale, ma non certo di uscirne in manette, arrestato dai
Carabinieri che lo internarono in un carcere allestito appositamente a Campo
Imperatore sul Gran Sasso.
Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle Forze Alleate in Europa |
La sera di quel giorno, capo del
governo italiano era diventato il personaggio più improbabile da un punto di
vista delle capacità ma più verosimile alla luce della nota attitudine
carrieristica italiana. Pietro Badoglio era un monumento alla mediocrità di
lungo corso. C’era lui a Caporetto a fare quella bella figura di fronte a
Rommel, c’era lui in Africa a concludere alla bell’e meglio quella campagna che
in principio rischiava di ripetere i fasti di Adua 1896. C’era lui la sera del
25 luglio a dire alla radio agli italiani che “la guerra continuava a fianco
dell’alleato germanico”. Vittorio Emanuele III di Savoia non aveva trovato di
meglio che un grigio burocrate sabaudo come lui.
Il Marchese del Sabotino fece
finta di continuare la guerra per un altro mese, poi a metà agosto si risolse a
mandare il generale Castellano a Lisbona, zona neutra, a sentire se gli Alleati
per caso fossero stati interessati ad un armistizio. L’inglese non lo sapeva nessuno, ovviamente,
altrimenti la delegazione italiana avrebbe avuto ben chiaro prima ancora di
partire che gli Alleati non erano interessati a niente di meno che una unconditional surrender, una resa
incondizionata. Come era stato stabilito fin dal gennaio di quell’anno a Casablanca,
da Churchill, Roosevelt e Stalin. O forse lo sapevano benissimo.
E resa incondizionata fu. Con un’avvertenza,
ma nota solo a pochi “interessati”. Quello che la delegazione italiana che si
recò per firmare a Cassibile, popolosa e ridente frazione del Comune di
Siracusa, era un armistizio corto. Il 3 settembre l’Italia uscì dalla guerra
dell’Asse ed entrò in quella a fianco degli Alleati. Ma ottenne 5 giorni di
tempo perché la cosa venisse alla luce. Il tempo in cui sarebbe entrato in
vigore l’armistizio lungo, quello definitivo e pubblico. Il tempo che serviva a
Sua Maestà Vittorio Emanuelle III di Savoia, la sua intera famiglia, il suo
intero Stato Maggiore e tutta la sua Corte per scappare alla volta di Brindisi,
città già controllata dalle forze angloamericane, abbandonando il popolo
italiano, il suo esercito ed il suo onore al loro destino.
Più di mille parole, a descrivere
il crollo di un paese e di una società insieme ai sofferti tentativi
individuali di tanti connazionali che cercarono di reagire personalmente magari
rivolgendo le armi contro chi dalla sera alla mattina era diventato da
diffidente alleato a feroce occupante, vale il capolavoro cinematografico di
Luigi Comencini interpretato da Alberto Sordi, Tutti a casa. “Signor comandante, accade un fatto incredibile, i
tedeschi si sono alleati con gli americani”.
In quelle ore, i nostri militari ignari
venivano massacrati – come a Cefalonia – dalle SS, a Porta San Paolo i
Granatieri di Sardegna tentavano una coraggiosa quanto inutile difesa di Roma
contro la Wehrmacht, i Carabinieri cercavano dovunque di limitare gli eccessi
dei nazisti inferociti per la “pugnalata alle spalle”, rimettendoci spesso la
pelle. In quelle ore, Vittorio Emanuele III era al sicuro a Brindisi, avendo
salvata la pelle ma avendo separato per sempre i destini della Monarchia da
quelli dell’Italia.
Gli italiani reagirono a seconda
delle inclinazioni personali. Un popolo che aveva perso almeno dal Rinascimento
qualsiasi virtù guerriera e qualsiasi spirito civico – se non nazionale – per la
maggior parte rimase a guardare, cercando di mettersi in salvo alla meno
peggio. Alcuni scelsero la via dei monti, altri quella di Salò, secondo le
ideologie o le pulsioni dei vent’anni. Ci vollero due anni per venire a capo dei
guasti firmati a Cassibile. Vinsero per fortuna i partigiani, ma gli italiani
ebbero in eredità un’Italia da ricostruire nel morale prima ancora che negli
edifici e nelle strutture. E malgrado qualche vittoria nei Mondiali di Calcio o
in altre competizioni prestigiose, non ci sono ancora riusciti. Ed è lecito a
questo punto dubitare che ci riusciranno più.
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