L’ultima volta la questione fu
risolta sulle rive del fiume Bannockburn, ai piedi delle Highlands e a ridosso
del Firth of Forth, il grande estuario su cui si affaccia Edinburgo. Gli
Scozzesi conclusero la rivolta iniziata ai tempi di William Wallace, Braveheart,
con quella che a tutt’oggi rimane la loro più grande vittoria militare sugli
odiati vicini, gli Inglesi. E per quattro secoli mantennero la loro
indipendenza, pur tra alti e bassi.
Stavolta non sarà il longbow, l’arco lungo dei gallesi, o lo
spadone di Braveheart a dirimere la questione della libertà scozzese. Saranno i
ballots. Il referendum convocato e
atteso fin da quando il Partito Nazionale ha ottenuto la maggioranza al
Parlamento Scozzese tre anni fa (ed i cui risultati si conosceranno già domattina)
comunicherà al mondo se esisterà ancora una Gran Bretagna (quella unione di
stati riunita sotto la Corona degli Windsor) oppure se, per la prima volta dal
1707 sulla carta geografica riappariranno due soggetti politici decisamente
distinti. E dal peso politico ed economico, nonché quindi dall’avvenire, tutto
da scoprire.
In quell’anno infatti l’Union Act
votato dai parlamenti di Londra ed Edimburgo stabilì appunto l’unione politica
tra due paesi che fino a quel momento o si erano combattuti sanguinosamente e
senza quartiere o avevano visto occasionalmente le rispettive sorti accomunate
da intrighi dinastici invisi ai rispettivi popoli. Per quasi tutto il
diciassettesimo secolo, dalla successione ad Elisabetta I la Grande, gli Stuart
scozzesi avevano regnato anche a sud del fiume Tweed.
Il paradosso della sovranità di
re sostanzialmente cattolici su due paesi fieramente protestanti ma divisi tra
loro da odi e rancori risalenti addirittura alla dominazione romana ed alla
successiva conquista sassone del sud dell’isola denominata allora Britannia,
era deflagrato alla fine nella Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688. Con
l’avvento degli Orange olandesi sul trono londinese, era suonata l’ultima ora
anche per l’indipendenza scozzese, fino ad allora nominalmente intatta. Nel 1701
l’Act of Sectlement aveva escluso per sempre il ritorno di sovrani cattolici a
Londra. Nel 1707 l’Union Act estese il provvedimento all’intera isola, nel modo
più efficace: Scozia e Inghilterra avrebbero avuto un unico re ed un unico
Parlamento, quelli inglesi. La Scozia era stata costretta ad accettare da una
gravissima crisi economica.
Da allora e fino ad oggi, la Gran
Bretagna ad egemonia inglese sarebbe diventata dapprima il paese più potente
del mondo ed il centro di un impero senza precedenti, poi sarebbe rimasta una
grande potenza a fianco degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale e la
fine del colonialismo. In tutto questo lasso di tempo, la Scozia obtorto collo avrebbe fatto buon viso a
cattivo gioco, aspettando il suo momento. Che oggi potrebbe essere arrivato.
Secondo il sistema elettorale
britannico per votare bisogna registrarsi anticipatamente all’Ufficio
Elettorale. In un contesto tutto sommato di cultura anglosassone, per cui è già
tanto se al ballot si presenta la
metà degli aventi diritto, a Edimburgo e nel resto del paese si registra
addirittura l’iscrizione del 98% degli elettori potenziali. Una affluenza
record che fa presagire un risultato
storico.
David Cameron e Barack Obama |
Il mondo, e soprattutto l’Europa,
guardano con apprensione a questo risultato. Il venir meno della Gran Bretagna
viene visto dall’establishment americano ed europeo come un probabile disastro
economico (con il crollo della sterlina e della borsa inglese) e politico (la
scomparsa del principale partner europeo degli U.S.A. e uno dei pilastri della
N.A.T.O. e del sistema di alleanze occidentale). Gli americani, figli essi
stessi di una rivoluzione contro la madrepatria inglese (la prima ad avere avuto
successo nella storia), almeno a giudicare dall’atteggiamento del loro governo
mostrano poca simpatia per questi potenziali epigoni, che provano adesso a
ripercorrere la loro strada, anche se senza spargimento di sangue. Gli appelli
si moltiplicano, la tensione cresce in entrambi i campi, tra indipendentisti e unionisti.
E’ un film se si vuole in parte già visto, nella vicina Irlanda nel secolo
scorso, anche se i tempi sono decisamente cambiati.
Al di là del risultato (si
prevede un testa a testa con esito di stretta misura), quello che fatalmente
passa in secondo piano è il nuovo contributo del mondo anglosassone alla causa
della libertà. Malgrado sia in gioco la stessa sopravvivenza della Gran
Bretagna, il suo leader il Primo Ministro Cameron non si è sognato per un
istante di non acconsentire alla consultazione referendaria. Il ballot scozzese è destinato a rimanere
nella storia – comunque vada a finire – come il principale episodio di
esercizio di autodeterminazione da parte di un popolo nei tempi moderni, sia da
un punto di vista politico che mediatico.
Britannia felix, in ogni caso. L’Europa dei popoli, l’Unione
Europea sorta a Maastricht con tante illusioni e tanti sogni (compreso quello
del trionfo definitivo della libertà e della democrazia), guarda con occhio
poco benevolo a questo referendum scozzese che invece dovrebbe nobilitarla. E
si prepara peraltro a scoraggiare altre sue componenti dal seguire la stessa
strada.
Le Cortes catalane vorrebbero indire analoga consultazione per il
prossimo 9 novembre. Barcellona soffre l’unione con Madrid, allo stesso modo di
come Edimburgo fa con Londra, da almeno tre secoli. L’11 settembre per i
catalani è l’anniversario della fine della loro libertà, nel 1714, e a
Barcellona per quello si è manifestato, non per le Torri Gemelle. Domani
dovrebbe arrivare la decisione del parlamento catalano, e nei giorni successivi
il governo di Madrid dovrà dire se si opporrà o meno a tale richiesta,
affiancando la Gran Bretagna in una dimostrazione di civiltà e democrazia
oppure ripiombando la Spagna almeno formalmente in un passato che vorrebbe aver
definitivamente dimenticato.
Ma il fanalino di coda assai
probabile si prepara ad essere acceso ancora una volta qui in Italia. La Lega
Nord ha deciso di promuovere in Veneto il referendum indipendentista tante
volte agitato come spauracchio negli ultimi trent’anni. Da quando il partito di
Umberto Bossi fece la sua prima comparsa a Montecitorio e Palazzo Madama, la
regione che sul leghismo vanta il diritto di primogenitura ha spesso mostrato
umori ondeggianti che si richiamano tra l’altro ad un passato di indipendenza
non meno gloriosa di quelle scozzese e catalana, anzi. La Serenissima Repubblica Veneta esisteva quando il confine tra
inglesi e scozzesi era costituito dal Vallo di Adriano e gli abitanti di
Barcellona e della futura Madrid erano i Vandali di Genserico.
Venezia insomma sta a Roma come
Edimburgo a Londra e Barcellona a Madrid. Peccato che del grande, grandissimo
passato della civiltà italiana non resti nulla da queste parti, e che si debba
stare a guardare sospirando cosa succede in altre regioni d’Europa più
fortunate. Il governo di Matteo Renzi ha già fatto sapere che impugnerà la
richiesta referendaria leghista presso quella Corte Costituzionale di cui sta
rinnovando proprio in questi giorni alcuni componenti. Come dire, io non sono
Cameron (e nemmeno eventualmente Rahoy), scordatevi di poter dire la vostra
sull’Unità d’Italia, voi popolo italiano.
Si badi bene, non si tratta qui
di perorare una causa piuttosto che un’altra, né tantomeno di patrocinare il
disfacimento di quell’Unità d’Italia tanto faticosamente conseguita dai nostri
trisnonni. Peraltro Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona, chiarisce che la
posizione del suo partito è più federalista che secessionista.
Il punto è un altro, ed è una
questione di diritto. In questa Europa i popoli hanno diritto ad
autodeterminarsi? Se non ce l’hanno, cosa ci sta a fare questa Europa? E
soprattutto, cosa ci sta a fare il popolo italiano, che di padroni e padroncini
ne ha già a sufficienza a casa sua?
Britannia felix….
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