«Qui è morta la speranza dei
siciliani onesti». Così una mano ignota scrisse 35 anni fa su un muro in Via
Isidoro Carini a Palermo, sul luogo dove poche ore prima erano stati
assassinati da un commando mafioso il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua
moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
L’Italia si risvegliò la
mattina del 3 settembre 1982 da un’estate di festeggiamenti per il Mondiale di
Calcio vinto in Spagna e per la sensazione diffusa che gli anni bui, gli anni
di piombo fossero appena terminati, grazie anche non soltanto all’opera dei nostri
calciatori ma anche di servitori dello Stato come Dalla Chiesa. Bastarono le
raffiche degli AK47 Kalashnikov in dotazione agli uomini di Totò Riina e
Bernardo Provenzano a cancellare il breve sogno di quell’estate.
Carlo Alberto Dalla Chiesa era
figlio di un carabiniere che aveva partecipato alle campagne antimafia del
prefetto Mori, al tempo del Fascismo. Ben presto si era distinto non solo per
la rapidità con cui aveva fatto la propria carriera, ma anche per il modo con
cui aveva onorato la propria divisa. L’8 settembre 1943 lo trovò infatti al
comando della caserma dei carabinieri di San Benedetto del Tronto, giovane sottotenente
a cui fu chiesto dalle SS naziste di collaborare nella caccia ai partigiani.
Dalla Chiesa rifiutò, riuscendo a sfuggire alla cattura per un soffio ed
entrando nella Resistenza dove rimase fino alla fine della guerra.
Dopo la liberazione, fu
inviato nel napoletano dove si distinse nella lotta al banditismo a tal punto
da meritarsi la promozione a capitano e la destinazione in un altro punto caldo
dell’Italia di allora (e di sempre): Corleone. Erano gli anni del bandito
Salvatore Giuliano e del separatismo fiancheggiato e strumentalizzato dalla
Mafia, che tentava di rialzare la testa dopo i colpi infertile da Mori.
Dalla Chiesa si distinse nelle
indagini sull’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, riuscendo a farne incriminare
l’autore, il boss emergente Luciano Liggio. Fu la prima volta che incrociò le
armi con Cosa Nostra, in una lotta che sarebbe durata per tutta la sua vita, e
che l’avrebbe portato ad operare insieme ad altri eroi come il commissario di
polizia Boris Giuliano. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I quali iniziarono la
loro opera nel pool antimafia costituito dopo la morte del Generale, e poterono
prendere le mosse proprio dall’immane lavoro fatto da quest’ultimo in più di trent’anni
di attività.
Negli anni 70, allorché
l’emergenza nazionale italiano cessò momentaneamente di essere la criminalità organizzata
e divenne il terrorismo, Dalla Chiesa fu promosso generale di brigata e
chiamato a Torino a comandare la regione militare nord-ovest, per fronteggiare
un nuovo nemico mortale, le Brigate Rosse. La lotta raggiunse il culmine nel
1978 dopo l’omicidio di Aldo Moro, a seguito del quale il Generale fu dotato dal governo di
poteri speciali, in mezzo a grandi polemiche per i timori delle sinistre di una
svolta liberticida. L’arresto di Peci e Micaletto e l’ottenimento della loro
collaborazione come pentiti segnarono il punto di svolta e l’inizio della fine
delle BR, e a quel punto il Generale poté tornare a dedicarsi al suo nemico
storico, Cosa Nostra.
Nel 1981 fu nominato
Vice-Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, stessa carica a cui era
arrivato suo padre. Il 5 maggio 1982 fu nominato Prefetto di Palermo, e
cominciarono quindi quelli che sarebbero passati alla storia come i 100 giorni.
I suoi ultimi.
Il Prefetto si rese ben presto
conto che, a differenza del suo predecessore Mori di cui gli si chiedeva di
eguagliare i risultati (si era nel bel mezzo della sanguinosa guerra tra
palermitani e corleonesi), i suoi poteri erano di fatto ben poca cosa. Fece
scalpore la sua intervista con Giorgio Bocca, dove dichiarò senza mezzi termini
che era stato mandato a combattere quella che doveva essere una vera e propria
guerriglia strada per strada con gli stessi mezzi del Prefetto di Forlì.
Via Carini, Palermo, 3 settembre 1982 |
Tuttavia il Generale non
vacillò, dimostrando che la lotta alla Mafia era soprattutto questione di
volontà. «Ci sono cose che non si fanno per coraggio, ma per potere continuare
a guardare serenamente negli occhi i figli e i figli dei propri figli (...).
C’è troppa gente onesta, tanta gente qualunque, che ha fiducia in me. Non posso
deluderla». Così parlava il Generale, racconta il figlio Nando nel suo libro Delitto
imperfetto.
In quell’estate del 1982, come
un rullo compressore, Dalla Chiesa arrestò boss a decine, sequestrò raffinerie
e partite di droga, stilò una vera e propria mappa di Cosa Nostra e delle sue
collusioni con la politica.
Era troppo. Mentre il Generale
pensava a qualche giorno di pausa da prendersi con la nipote (e la figlia Rita
ha raccontato di avergli detto di no, istintivamente, per paura), ai
carabinieri di Palermo arrivava una telefonata anonima che diceva
sibillinamente: “l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi
conclusa”. Cosa intendesse dire la voce anonima dal forte accento siciliano
fu chiaro pochi giorni dopo, alle ore 21, 15 del 3 settembre, in Via Carini. I
corleonesi avevano vinto la guerra interna alla Mafia e ora si rivolgevano di
nuovo contro lo Stato.
Ai funerali di stato, la folla
rivolse alle autorità insulti, sputi e lanci di monetine, così come sarebbe
successo esattamente 10 anni dopo ai funerali di Falcone e Borsellino. Quel
giorno del 1982 si salvò solo il presidente Sandro Pertini. Dieci anni dopo non
si sarebbe salvato nessuno.
«Disgraziata la
terra che ha bisogno d’eroi» (Bertolt Brecht)
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