Ogni volta che ripenso a lui –
praticamente di continuo – lo rivedo sempre com’era quella sera dal
veterinario, nella gabbia dov’era convalescente, quando finalmente si rilassò
alle mie carezze e concesse a se stesso, e anche a me, il primo barlume di
speranza, il primo momento di tenerezza, di voglia di restare in questo mondo,
di tornare a casa con noi, di diventare uno dei nostri gatti.
Knut era comparso una sera dello
scorso gennaio. Eravamo tornati a casa a buio, mentre io ero già dentro a dar
da mangiare ai nostri gatti affamati, Bamboo, Joyce e Amelia, Paola si era
fermata fuori perché qualcuno miagolava dentro la siepe che recinta casa
nostra. “C’è anche Amelia, qui”, mi gridò da fuori. Io da dentro vedevo Amelia,
la gattina bianca, che mi faceva le fusa tra le gambe per avere la sua ciotola.
“No,” le risposi, “Amelia è qui!” “Allora c’é un altro gatto bianco!” gridò
Paola, prima di entrare in casa portandosi dietro il nuovo, affamatissimo
arrivato.
Cominciò così la storia di Knut
con noi. Lo chiamammo così perché ci ricordava l’orsetto bianco dello Zoo di
Berlino. Bianco come l’Amelia, si distinguevano solo per le dimensioni. Knut
era un gattone, per quanto emaciato dai tanti giorni trascorsi nei boschi e da
una fame sconfinata.
Chissà da dove era arrivato, non
l’abbiamo mai saputo, né abbiamo mai saputo se qualcuno lo cercava, lo
reclamava. Più facile che qualcuno l’avesse abbandonato. Il veterinario scoprì
subito che aveva la FIV, l’AIDS dei felini. Probabile che fosse stato
allontanato, lasciato al suo destino nei boschi sotto Bivigliano, come tanti
altri. Oppure chissà.
L’unica cosa certa era che Knuttino aveva una gran fame. Quella prima sera mangiò come un lupo, mentre gli altri
gatti guardavano allibiti quel nuovo arrivato che si faceva fuori le loro
provviste di cibo. Ma nessuno lo accolse male, tutto sommato. Più intelligenti
di tanti esseri umani, capirono subito che quel loro simile aveva bisogno di
aiuto, di un riparo contro il freddo invernale, di sfamarsi dopo aver patito la
fame per chissà quanto.
E poi Knut era buono come il
pane. Mai litigato con nessuno dei suoi fratelli adottivi. Semmai era diventato
con il tempo “territoriale”, protettivo verso la sua nuova casa, il suo nuovo
giardino, la sua proprietà e quella vita che il cielo gli aveva donato quando
tutto sembrava perduto. Solo per illuderlo di nuovo, in attesa di un’altra
beffa, ma questo allora non potevamo saperlo, né lui né noi. Knut faceva la
guardia tutte le sere, dopo cena, guardando male altri gatti di passaggio e a
volte accompagnandoli ai confini della proprietà. Ma mai con cattiveria o
aggressività. Come certi americani di prima generazione, era diventato il più
fanatico sostenitore della sua nuova patria, restando tuttavia quello che era:
la bontà personificata. Perché Knut era una persona. Come noi.
Non facemmo a tempo a decidere di
tenerlo con noi che le sue condizioni peggiorarono. Il periodo di stenti l’aveva
provato, le sue difese compromesse dall’AIDS gli avevano procurato anemia,
infezioni, malattie varie. Quando lo portai dal veterinario credevo di portarlo
a morire, se non quella sera la sera successiva. E’ un qualcosa che ho già
provato due volte, è straziante, da impazzire. Ed ero pronto ad affrontare
quella cosa per la terza volta. La sera dopo invece lo trovai che stava
reagendo, con la voglia di vivere che le medicine, le nostre cure e – spero –
le mie carezze gli stavano ridando. Mi si abbandonò tra le braccia. Poche volte
sono stato così contento come quella sera. Quando lo riportai a casa, pensavo
di aver vinto chissà che, meglio di un terno al lotto.
Voglio bene a tutte le mie
bestiole, allo stesso modo. A quelle che sono sopravvissute e a quelle che non
ci sono più, soprattutto le ultime, portate via da quelle belve che si
chiamano uomini e che dalle mie parti sono particolarmente feroci. Ma Knut era
diventato in qualche modo speciale. “Salvato dal bosco”, come Mosé era stato
salvato dalle acque. Knuttino era affettuoso, cercava il suo posto accanto a
noi timidamente, quasi a voler dare agli altri gatti una sensazione
rassicurante, far capire loro che non voleva passare avanti a nessuno. Cercava solo
affetto e calore.
Era speciale. Come quella volta
che dette la caccia all’uccellino entrato in casa fin sulle travi del soffitto,
finché non lo prese. Per lasciare poi che glielo togliessi di bocca senza
resistenza. Aveva dimostrato di essere un grande cacciatore. Non avendo fame, e
non essendo una belva omicida come solo l’uomo può essere, lo lasciò vivere,
non c’era scopo a prendersi la vita di un’altra creatura.
Chissà dov’è adesso. Chissà chi
ha preso la sua di vite, e perché. Vorrei tanto poter sperare che avesse
ripreso il suo viaggio, nei boschi settembrini, verso una nuova destinazione e
magari una nuova famiglia. Vorrei solo sapere che sta bene, come ho cercato che
stesse con tutte le mie forze da quando è venuto da noi. Ma di lui non c’è traccia, e cinque giorni sono tanti per una bestiola che aveva sempre fame, alle ore pasti
si faceva sempre trovare davanti alla sua ciotola. Cinque giorni trascorsi in
un bosco dove si aggirano le bestie più orrende che la natura abbia mai creato:
gli uomini armati di fucile. Un bosco dove, ancora per chissà quanto, ogni luce
ed ogni ombra giustificherà i miei sogni allo stesso modo dei miei incubi. Finché
mi resterà solo il ricordo, e nemmeno una tomba dove andarlo a trovare, così
come per Ljiuba e il Bianchino e tutti gli altri che non ci sono più. Spariti nel maledetto nulla.
Vorrei almeno la certezza che, se
se ne è andato, adesso è in cielo a scorrazzare con gli altri nostri gatti
scomparsi, in un giardino dove nessuno può far loro più niente di male. I miei
cari, umani e animali tutti insieme. Ma non c’è nessuna certezza, di niente. La
vita si fa beffe di noi. E si porta via sempre i più buoni. Come Knut, i cui
occhi dolci non potrò scordare mai.
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