409 giorni di galera, sotto
stretta sorveglianza. Non era un ladro, o peggio ancora un sospettato di
qualche omicidio efferato. Era un giornalista scrittore, Giovanni Guareschi da
Parma, destinato a diventare famoso per la sua personale rappresentazione della
Guerra Fredda in salsa nostrana vissuta attraverso i personaggi di Don Camillo
e Peppone. Come giornalista, cercava di raccontare le malefatte di quella che a
lui sembrava una classe politica impresentabile (chissà che avrebbe scritto
oggi….) dalle colonne del Candido, un
periodico di satira politica fondato da Giovanni Mosca e da lui stesso, e che
nell’immediato dopoguerra fu la palestra in cui si formarono – o finirono di
formarsi – nomi prestigiosi del giornalismo italiano, da Leo Longanesi a Indro
Montanelli, a Oreste Del Buono, a Carletto Manzoni a Walter Molino.
Non era un uomo di sinistra
Giovanni Guareschi. Gli strali della sua satira avevano come bersaglio
preferito i comunisti “trinariciuti”, l’Unione Sovietica, quel Fronte Popolare
social-comunista che nel 1948 si era presentato alle prime elezioni libere del
dopoguerra convinto di fare man bassa di voti e di portare l’Italia nel campo
della rivoluzione proletaria e della Terza Internazionale e che invece aveva
dovuto arrendersi clamorosamente alla valanga di consensi allo Scudo Crociato,
la Democrazia Cristiana. Proprio sulle pagine del Candido di Guareschi fu
coniato lo slogan elettorale più famoso del 1948, “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!”
Tuttavia, l’ex monarchico
moderato Guareschi con la penna in mano era un giornalista imparziale, e non
risparmiava il veleno del suo inchiostro anche alla maggioranza democristiana e
clericale. Ed era inevitabile che venisse a scontrarsi con il potere, che in
quel momento era nelle mani di Alcide De Gasperi. Nel gennaio 1954 Guareschi
pubblicò due lettere a firma dello statista trentino che risalivano a dieci
anni prima, a quella primavera in cui gli Alleati stavano cercando di forzare
la resistenza tedesca ed impadronirsi di Roma, che nel frattempo stava
agonizzando sotto il regime di città aperta imposto da Kappler e dalle SS di
Via Tasso. Una primavera più simile ad un inverno, interminabile, proprio per porre
fine alla quale De Gasperi, in quel momento rifugiato in Vaticano come molti
altri politici italiani, aveva scritto al generale britannico Alexander,
comandante della 8^ armata e del fronte alleato in Italia, per indicargli i
punti nevralgici della capitale da bombardare al fine di porre termine più in
fretta possibile alla resistenza tedesca e di indurre lo stesso popolo romano a
ribellarsi ai nazifascisti.
Era materiale controverso,
indubbiamente scottante, e nel clima di passioni avvelenate e tutt’altro che
sopite dell’immediato dopoguerra destinato a prestarsi a furiose polemiche ed
inevitabili strumentalizzazioni. Invano lo stesso Montanelli sconsigliò
Guareschi – e perfino l’editore Rizzoli – di pubblicare le lettere. Guareschi
andò a dritto, e De Gasperi sporse querela. Il processo, che allora ebbe luogo
in tempi rapidi e non biblici come sarebbe successo al giorno d’oggi, si
concluse con la condanna di Guareschi per diffamazione a mezzo stampa. Reato
punibile, e punito, con la reclusione fino a dodici mesi.
La costituzione repubblicana,
art. 21, tutelava già da sei anni la libertà di stampa, e ad essa si era
aggiunta nel 1950 la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, ma l’Italia del dopoguerra era – da un
punto di vista dell’ordinamento giuridico – più vicina a quel regime fascista a
cui la Repubblica era succeduta che a un paese libero, in cui si dava
attuazione al dettato costituzionale e si recepivano i trattati internazionali.
Il Codice Rocco prevedeva il carcere per diffamazione a mezzo stampa e per
vilipendio delle autorità, e carcere fu. Guareschi, condannato dopo un processo
in cui fu violata ogni guarentigia nei confronti dell’imputato, entrò nella prigione di San Francesco a Parma
il 26 maggio 1954 e ne uscì il 4 luglio dell’anno seguente. Siccome era
recidivo a causa di una precedente condanna sospesa per la condizionale, dopo
altri sei mesi in libertà vigilata presso la propria abitazione parmense,
Guareschi tornò ad essere un uomo libero soltanto il 26 gennaio 1956.
Alcide De Gasperi, che aveva
commentato la sorte dell’avversario con un “sono
stato in galera anch’io e ci può andare anche Guareschi” che fa poco onore
per la verità ad un personaggio altrimenti riconosciuto e ricordato per la
grande statura morale oltre che per le qualità personali di uomo e di statista,
non c’era più. Era morto il 19 agosto 1954. Giovanni Guareschi, che era entrato
in carcere affermando orgoglioso “per
rimanere liberi bisogna, ad un bel momento, prendere senza esitare la via della
prigione”, dimostrò di essere un galantuomo fino in fondo dicendosi
rattristato per “la morte improvvisa di
quel poveretto (De Gasperi, n.d.r.).
Io alla mia uscita avrei voluto trovarlo sano e potentissimo come l’avevo
lasciato: ma inchiniamoci ai Decreti del Padreterno”.
Guareschi gli sopravvisse per
quattordici anni, ma è opinione comune che il soggiorno in carcere l’avesse
duramente segnato, imponendogli una vita ritirata per motivi di salute e un
forte ridimensionamento della sua stessa attività di giornalista. Il Candido, dalla cui direzione si era
dimesso poco dopo l’uscita dalla galera, chiuse i battenti nel 1961. Quando nel
1968 Giorgio Pisanò (esponente di spicco del Movimento Sociale Italiano)
rifondò il periodico offrendogliene di nuovo la direzione, un infarto gli
impedì di rispondere all’invito. Al suo funerale, l’unico collega presente fu
Enzo Biagi, l’unica personalità di rilievo fu Enzo Ferrari. Assenti
completamente le autorità. Fu sepolto con la bandiera italiana con lo stemma
sabaudo.
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