La battaglia per l’art. 18 sembra proprio quella decisiva.
L’ultima frontiera su cui si gioca non solo l’avvenire del partito democratico
ma anche quello del paese che sta governando. E non per fattori strettamente
economici, ma soprattutto per fattori politici, o meglio ancora attinenti alla
psicologia di massa.
Gli schieramenti che si stanno delineando, due campi
fieramente avversi che non dialogano come francesi e spagnoli prima della
decisiva battaglia di Rocroi nel 1643, fanno capo alle due Italie che si
confrontano ormai da anni, da quando è cominciata questa crisi economica
epocale: quella che ha tutto da perdere e quella che da perdere non ha più
niente. Con un attore sulla scena in grado di mischiare le carte e sparigliare
sia quelle già calate che quelle da calare.
Da quando è apparso sulla scena politica, Matteo Renzi è
stato individuato da molti come il Tony Blair italiano, colui che può riportare
in auge la sinistra attingendo anche all’elettorato di destra. Da quando un
Presidente della Repubblica che forse sogna di assistere nei suoi ultimi anni ad
un ritorno strisciante (ma neanche tanto) alla Prima Repubblica dei suoi anni
verdi gli ha conferito l’incarico di Presidente del Consiglio, Renzi si è
impegnato in una battaglia epica: riformare un paese e la sua economia distorta
(o almeno darne l’impressione) a scapito di poteri forti, rendite di posizione
e nomenklature. A cominciare da quella che guidava il suo stesso partito e
vorrebbe tornare a farlo. Soprattutto da quella.
Dopo mesi di discussione, il Jobs Act sembra sul punto di arrivare in discussione in Parlamento.
Scocca l’ora dell’art. 18, o per meglio dire della sua morte probabile. “Un
datore di lavoro deve avere la possibilità di licenziare”, è lo slogan semplice
del Premier, che ieri ha affrontato il fuoco dei suoi “compagni” di partito in
attesa di sottoporsi a quello (ancora più insidioso) delle Camere.
La vecchia guardia è uscita allo scoperto, il direttivo si
è spaccato in due, anche se poi il plenum
della Direzione ha gratificato il Segretario-Presidente di un 86% di consensi
che avrebbe del clamoroso se non si dovesse tener conto di una serie di
fattori, tra i quali la probabile esasperazione della stessa base del PD nei
confronti di una classe dirigente sopravvissuta a troppe epoche storiche e
anche una valutazione delle ragioni della crisi da affrontare che in questo
momento magari non ha chiaro cosa è meglio fare, ma ha invece chiarissimo cosa
bisogna disfare.
Ha un bell’arringare la platea il vecchio inossidabile
Massimo D’Alema con il richiamo ai precetti del Premio Nobel per l’Economia
Joseph Stiglitz, «il mercato del
lavoro non si riforma quando c’è recessione, ma quando c’è crescita. Sentire un
presidente del consiglio dire “è giusto che il padrone possa licenziare” è una
cosa che non induce esattamente al consumo ». Il professore della Columbia University,
ex consigliere economico del Presidente Clinton, ha sicuramente meno presa
sulla platea dei delegati PD del Segretario affabulatore che cerca di portare a
casa finalmente un risultato concreto, dopo tante promesse fatte fin dai tempi
della Leopolda e finora di là da mantenere.
«Non siamo un
club di filosofi – ribatte Renzi - ma un partito politico che decide. In Italia
il Pd è il punto di riferimento di una sfida che tende a cambiare l’Italia e
l’Europa. Siamo il partito più grande dell’Europa. Gli italiani ci hanno detto
che l’Italia la deve cambiare il Pd. (….) A me non preoccupano le trame altrui,
è normale che qualcuno abbia timore di vedersi spodestato dal panorama politico
italiano e cerchi di riprendersi il proprio posto. Non chiamiamoli poteri
forti, visto che sono stati sconfitti da noi. Chiamiamoli poteri
aristocratici.».
E’ una
risposta a tanti, da Diego della valle che lo ha accusato pochi giorni fa di
“essere una sola”, poiché con quei poteri forti lui “ci va a braccetto” (con
riferimento al recente viaggio del Premier a Detroit da Marchionne) ai suoi
compagni-avversari della vecchia guardia PD. Cuperlo lo accusa senza mezzi
termini di essere una riedizione in brutta copia della Sig.ra Thatcher, Bersani
parla addirittura di “metodo Boffo” (’espressione entrata nel lessico della politica italiana,
come sinonimo di campagna di stampa basata su illazioni e bugie allo scopo di
screditare qualcuno per ragioni politiche).
Renzi ribatte a suo modo buttandola sull’ironia toscana, dicendo di aver a
volte usato semmai un “metodo buffo”.
Alla fine la Direzione gli tributa un plebiscito bulgaro e
sconfessa i reduci della vecchia Cosa
post-comunista. La parola passa al Parlamento, il gruppo PD di Palazzo Madama è
convocato per martedi prossimo. E ai sindacati, che a quanto pare stanno
ritrovando una unità di intenti quale non si vedeva da tempo immemorabile.
Camusso, Furlan e Angeletti stanno riportando in auge la storica Triplice dei
tempi di Lama, Carniti e Benvenuto proprio sul terreno dello scontro in difesa
dell’art. 18. Con quali risultati è un’incognita assoluta.
Nel frattempo, il PD almeno a livello di vertice mostra
delle crepe che possono far pensare anche a sviluppi clamorosi. La lunga storia
cominciata al Teatro Goldoni di Livorno con la scissione del 21 gennaio 1921
potrebbe anche trovare conclusione in un’altra scissione che a questo punto
sarebbe altrettanto clamorosa. D’Alema, Bersani, Finocchiaro, Cuperlo sembrano
altrettanti generali di uno stato maggiore assediato in un bunker e potrebbero
decidere di non aspettare la fine là dentro.
Ancora una volta, le due anime della sinistra italiana
potrebbero arrivare presto alla resa dei conti.
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