18 luglio 2013
Scrivevamo tempo fa,
nell’articolo In nome del popolo italiano, delle non certo felici condizioni in
cui versa la giustizia italiana, l’unica questione tra quelle che sono o
dovrebbero essere oggetto di riforma nel nostro Paese su cui si registra –
almeno nelle intenzioni – un consenso bipartisan, staremmo per dire una
unanimità. Domani è l’anniversario della strage di via d’Amelio, e spiace un
po’ dover sollevare l’argomento della giustizia che non funziona proprio a
ridosso di un evento simile, che ci ricorda e ci ricorderà fino alla notte dei
tempi che è esistito chi ha nobilitato fino ai massimi livelli la professione,
anzi diciamo meglio, la missione di magistrato. D’altra parte, se una cosa non
funziona, non funziona, a prescindere dall’impegno degli addetti ai lavori. Il
discorso vale per tanti altri settori, dalla pubblica amministrazione
all’ambito di impiego delle professioni più varie, comprese quelle aventi a che
fare con la politica (anzi soprattutto loro).
Il Palazzo di Giustizia di Roma, detto il "Palazzaccio" |
Dunque, la giustizia. Argomento
delicato, si rischia sempre di urtare delle suscettibilità pericolose. Eppure
argomento più che mai d’attualità perché non passa giorno senza che l’attualità
stessa incalzi, offrendo nuove testimonianze a proposito di quanto
l’amministrazione della legge sia bisognosa di essere riformata. Scrivevamo
ieri a proposito delle offese del vicepresidente del Senato Calderoli alla
ministro per l’Integrazione Kyenge, vicenda dai molti aspetti scabrosi che
abbiamo cercato di riassumere su queste colonne. Non poteva mancare un seguito
giudiziario, ovviamente. Il Codacons (ma non era un’organizzazione che
per statuto si occupava della tutela dei consumatori?) ha presentato alla
Procura di Bergamo un esposto-denuncia contro Calderoli per le offese razziste
alla Kyenge, l’ipotesi di reato è diffamazione aggravata da discriminazione
razziale.
La vicenda, se prima era
scabrosa, adesso – ci sia consentito dirlo – sfiora il ridicolo. La scarsa
conoscenza della legge di certi cittadini (o loro associazioni) si somma ad
alcune previsioni normative formalistiche che obbligano sempre e comunque
all’azione una Procura della Repubblica, a prescindere dalla fondatezza o meno
della questione. Risultato? Azzardiamo un pronostico: l’unico certo sarà lo
sperpero, per quanto doveroso, di denaro pubblico.
Roberto Calderoli e Cecile Kyenge |
Detta in parole povere, il
Codacons denuncia le offese razziste di Calderoli, il procuratore di Bergamo è
costretto ad aprire un fascicolo. Che poi ne segua qualcosa, è da vedere, perché
ci sono due piccoli particolari da tenere in considerazione: il primo è che si tratta
di un reato d’opinione, questione assai delicata (come non ha mancato di
rilevare il procuratore di Bergamo dott. Dettori) e giustamente trattata con le
pinze dalla nostra stessa Costituzione; l’altro è che il presunto reo è un parlamentare,
che come dovrebbe esser noto anche ai frequentanti le scuole materne, “non è
perseguibile per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle
proprie funzioni” (art. 68 Cost.). Pertanto, almeno per i prossimi cinque anni
(salvo rielezione), Calderoli non è perseguibile, e se la sua Camera di
appartenenza non lo autorizza, nemmeno indagabile.
La Procura ha l’obbligo
dell’azione penale perché qualche cittadino l’ha messa nel mezzo, deve aprire
un fascicolo ed assegnarlo a qualcuno dei suoi magistrati, che per poco o per
tanto tempo ne risulterà impegnato, fino all’inevitabile nulla di fatto.
Inevitabile peraltro anche la reazione dell’opinione pubblica, per quanto solo
parzialmente esatta: dice, ma la Procura di Bergamo non ha nulla di più utile
da fare? Certo, basta vedere la quantità di cause che ha in arretrato, come
tutte le Procure. Anche il Codacons aveva qualcosa di meglio da fare, ma
questo è un altro discorso. Qui interessa rimarcare che questo sistema va
riformato, altrimenti la giustizia in Italia non esiste più.
Come se il sistema non fosse già
abbastanza delegittimato dalle sue oggettivamente cattive regole di
funzionamento, ci si mettono anche le prese di posizione di alcuni personaggi
che hanno fatto parte di quel sistema, anche se forse il fatto di essere
passati alla politica ha un po’ condizionato certi loro giudizi. Così, Antonio
Ingroia, ex pubblico ministero di Palermo poi in aspettativa per (tentato)
mandato parlamentare e poi di nuovo reintegrato in servizio (ma, come prevede
la legge, nell’unica sede in cui non aveva corso alle elezioni, Aosta), ha
delegittimato pubblicamente il Consiglio Superiore della Magistratura, accusandolo
senza mezzi termini di aver preso una decisione “politica” per punire la sua
“non omologazione”. A cosa? Lo lascia immaginare lui stesso, quando dice che il
suo desiderio di seguire le orme del “maestro” Borsellino è stato frustrato
ingiustamente, che la sua azione antimafia è stata pesantemente ostacolata e che
il suo tentativo di passare nel campo del Potere Legislativo è stato anch’esso
mal visto dal CSM e di conseguenza punito.
Antonio Ingroia |
Accuse non da poco, come si vede,
devastanti come il tritolo usato dalla Mafia qualche anno fa. Nel frattempo, il
CSM ha disposto la rimozione del procuratore di Palermo Francesco Messineo,
proprio per la sua acquiescenza con lo stesso Ingroia che a detta dello stesso
Consiglio ha avuto una ricaduta negativa sull’azione antimafia, impedendo tra
l’altro la cattura dell’attuale capo dei capi, quel Matteo Messina Denaro che
ha raccolto l’eredità di Bernardo Provenzano. Grandi smentite di Messineo e di
Ingroia, l’un contro l’altro armati e tutti e due contro il CSM. Basta così? Nemmeno
per sogno, Ingroia continua con la sua azione a tutto campo. Ne ha anche per i
giudici che hanno assolto il generale Mori e gli altri carabinieri imputati di
essere il braccio dello Stato nella presunta trattativa con la Mafia. “Di
imperdonabili sbagli a propria insaputa ne abbiamo visti fin troppi, anche i
questi giorni”, ha commentato l’ex PM di Palermo. Dimenticando forse che di quel
sistema che eventualmente ha sbagliato ne ha fatto parte lui stesso, fino a
pochi mesi fa.
Ma l’attacco più duro al sistema,
uno di quelli per cui verrebbe voglia di non credere più a niente, è stato
portato recentemente da uno dei mostri sacri del mondo giudiziario
italiano. Il giudice Ferdinando Imposimato è una figura di prestigio per chi ha
frequentato e frequenta le aule di tribunale, e non solo. Attualmente
presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione e addirittura candidato
alla Presidenza della Repubblica per il Movimento 5 Stelle, è stato giudice istruttore
di alcuni dei più importanti processi della storia d’Italia, tra cui per dirne
solo due quello sull’attentato a Papa Giovanni paolo II e quello per l’omicidio
di Aldo Moro, prima di darsi alla politica (eletto prima alla camera e poi al
senato come indipendente nelle liste del PCI).
Proprio sul delitto Moro,
Imposimato ha ritenuto opportuno rompere un silenzio quasi trentennale,
svelando alcuni retroscena abbastanza gravi in un suo memoriale di recente
pubblicazione e facendo riaprire il relativo fascicolo alla Procura di Roma. In
sintesi, con stile pari alla tempestività, ha accusato come mandanti del
delitto Moro gli ex compagni di partito Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, i
quali ebbero un interesse coincidente con quello degli Stati Uniti d’America e
di alcuni loro alleati quali la Gran Bretagna, e perfino con l’Unione Sovietica
(per motivi speculari a quelli delle potenze rivali).
Ferdinando Imposimato |
Sull’opportunità di rivolgere
accuse così gravi a due persone scomparse (guarda caso soltanto dopo la
dipartita dell’ultimo dei due), ognuno tragga le sue conclusioni,
morali e civili. Sull’opportunità di riaprire un fascicolo presso la Procura,
crediamo si possano fare le stesse considerazioni fatte per quello aperto a
Bergamo contro Calderoli. In questo caso, gli storici possono far risparmiar
tempo alla magistratura inquirente, che ha senz’altro di meglio da fare. Ciò
che disturba di più, è che a leggere ed ascoltare Imposimato sembra di sentir
parlare non il giudice istruttore dei maggiori processi politici del XX secolo,
ma piuttosto un polemista politico, che non è dato sapere quando e come è venuto
al corrente di verità così importanti, e sulla base di quali riscontri.
Dire la verità, se di verità si
tratta, 30 anni dopo non serve a niente, così come non servono a niente questi
fascicoli aperti a giro per le varie Procure d'Italia. Servirebbe invece che la
verità venisse accertata sul momento, e con criteri più oggettivi e prove più
certe di quelli adottati in aula in processi - per esempio - come quello
cosiddetto di Ruby, dove il PM Boccassini ha potuto smentire il teste
principale sulla base di nient'altro che la propria impressione.
Un atteggiamento che potremmo
definire quasi "lombrosiano", se non si corresse il rischio di
offendere il grande studioso veronese. Oppure servirebbe capire qualcosa di più
su vicende come quella degli Ablyazov, i dissidenti kazaki rimpatriati con il beneplacito
della Procura di Roma. Vicende molto più attuali, di sicuro significativa della
sorte che potrebbe toccare non solo a Berlusconi o a presunti amici o nemici di
Berlusconi, ma anche a chiunque di noi in circostanze analoghe. Vicende per le
quali (come per altre) non vorremmo dover aspettare 30 anni prima che qualcuno
che già adesso conosce la verità ritenga giunto il momento di dircela.
Non è questa la giustizia di cui
i cittadini possono aver fiducia, ora come tra 30 anni nel futuro. Questa
giustizia va soltanto riformata, radicalmente. Esserne consapevoli è l’unico
modo per commemorare degnamente l’anniversario di domani.
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