“Il bene si fa, ma non si dice”.
Semplice, lapalissiano. Con queste parole da figlio del popolo Gino Bartali
aveva spiegato perché non si era mai saputo nulla della sua attività a favore
degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. L’ultimo capitolo della sua
leggenda umana e sportiva, consacrato da una medaglia d’oro al valor civile
conferita postuma dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ma soprattutto
dall’inserimento del suo nome tra i “Giusti tra le Nazioni” nello Yad Vashem, il memoriale ebraico che
tramanda a futura memoria il nome appunto di chi mise in gioco la vita per
salvare quella di altri quando tutto sembrava perduto.
“Chi salva una vita salva il
mondo intero”, recita il Talmud. Di tutti i campioni dello sport italiano che
hanno guadagnato un posto nella storia, Gino Bartali è stato il più grande. Perché
la sua storia si è intrecciata a quella d’Italia (e del mondo) nei suoi momenti
più drammatici. “Quegli occhi allegri da italiano in gita” cantati
magistralmente da Paolo Conte sono forse la cosa più preziosa prodotta dalla
nostra razza nel ventesimo secolo.
Fu il figlio Andrea a raccontare dopo
la scomparsa del padre, avvenuta poco dopo il volger del nuovo millennio, che
la sua più grande impresa non era stata quella di fare incazzare i francesi – sempre per
dirla con Paolo Conte – una prima volta nel 1938, lo stesso anno in cui la
Nazionale di Vittorio Pozzo espugnò Colombes diventando bicampeon del mondo di calcio, e poi una seconda nel 1948 quando
contava ancora di più. Perché l’Italia uscita sconfitta e distrutta dalla
guerra fascista era sull’orlo di una nuova guerra, questa volta civile.
Gli spari dell’anarchico Pallante
a Palmiro Togliatti non produssero all’Italia un destino analogo a quello della
Grecia per diversi motivi, dei quali non secondario fu l’annuncio del trionfo
di Gino Bartali sugli Champs Elysées. Ginettaccio,
come lo chiamavano i suoi tra Ponte a Ema dove era nato e Firenze rese l’ultimo
servizio al suo paese impedendo che succedesse chissà cosa.
Era nato a pochi giorni dallo
scoppio della Grande Guerra. La Seconda gli portò via gli anni migliori della
carriera. Lui trovò il modo di impegnare quegli anni maledetti entrando nella
leggenda non dello sport ma dell’umanità contribuendo a salvare circa 800 ebrei
dalla Gestapo. Trasportava i documenti falsi che dovevano servire all’espatrio dei
perseguitati grazie alla rete gestita dal Cardinale Dalla Costa e dal Rabbino
Cassuto nei tubolari della bicicletta. Ai fascisti repubblichini diceva che si
allenava in vista dei prossimi impegni sportivi. Alla Banda Carità, la
squadraccia di torturatori che rivaleggiò con Via Tasso a Roma nelle
atrocità nazifasciste dell’inverno 1943-44 a Firenze, dio solo sa cosa disse.
Era tutto sbagliato, tutto da
rifare. Ginettaccio ce la fece, e
vide il dopoguerra insieme agli israeliti che aveva salvato e agli italiani che
lo applaudirono nel luglio 1948, in occasione della prima grande vittoria della
nostra Repubblica nata dalla Resistenza. E che poi si chiesero per decenni chi
fosse stato tra lui e Fausto Coppi a passare la borraccia all’altro durante il
Tour del 1952. La storica foto che racchiude due campioni da leggenda in uno
scatto immortale. La logica vuole che il vecchio Bartali aiutasse il giovane
Coppi a vincere il suo Tour, alla faccia dei francesi che continuavano ad
incazzarsi senza darsi pace. Quando si correva Oltralpe, non era Coppi contro
Bartali, era Italia-Francia, e allora tutto torna.
Ma tutto sommato, che importanza
ha? Gino Bartali era un fuoriclasse che trovava naturale passare la borraccia
ad un altro fuoriclasse italiano in terra nemica. Così come aveva trovato
naturale portare nei tubolari della bici dei documenti che potevano costargli
una morte atroce. Perché il bene si fa,
ma non si dice. Gino Bartali, orgoglio italiano, giusto tra le nazioni.
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