Un uomo solo al comando. Il suo
nome non è Fausto Coppi, o Gino Bartali, o Gastone Nencini, o Felice Gimondi o
Marco Pantani. Il suo nome è Vincenzo Nibali, e da stasera lo conoscono in
tutto il mondo. La scaramanzia è rimasta sui tornanti di Hautacam insieme al
gruppo degli inseguitori della maglia gialla, staccato di oltre un minuto dall’ultimo
imperioso scatto del messinese. Da stasera la Grande Boucle è sua, settimo italiano di sempre a vincerla.
Per la consacrazione bisogna
attendere gli Champs Elysées a Parigi domenica prossima, ma ormai soltanto una
sfortuna incredibile potrebbe privare il campione nato a Messina e cresciuto
ciclisticamente in Toscana di un successo meritato e clamoroso. Nibali era uno
dei favoriti, e con il ritiro di Contador era diventato il favorito numero uno.
Ma che potesse essere incoronato addirittura come il “padrone del Tour” non se
lo aspettava nessuno.
Sette minuti di distacco sul
secondo, non più lo spagnolo Valverde ma il francese Pinot sono un vantaggio
che impone ormai all’italiano soltanto l’esigenza di stare attento a qualche
scivolata, come quella che a settembre scorso a Firenze sulle strisce pedonali
bagnate di Via Trieste lo privò di una probabile vittoria nella corsa mondiale
a cui teneva di più, sulle strade del capoluogo della sua regione adottiva.
Stavolta la sorte dovrebbe risarcire Vincenzo Nibali con gli interessi,
accompagnandolo negli ultimi 400 chilometri verso Parigi in una cavalcata da
eroe d’altri tempi.
Nella corsa più importante di un
ciclismo che sta riscoprendo la pulizia e l’epopea di campion veri, senza
additivi chimici, si torna a parlare prepotentemente italiano azzerando un
segnatempo che ticchettava da sedici anni. Dall’ultima grande impresa del mai
abbastanza troppo rimpianto Pirata di Cesenatico, che a sua volta aveva colmato
una lacuna di oltre 30 anni.
Dai tempi in cui Bartali e Coppi
facevano incazzare sistematicamente i francesi, per dirla con le celebri parole
di Paolo Conte, la Grande Boucle si
era dimostrata un osso sempre più duro da rodere per i ciclisti nostrani. Marco
Pantani aveva trionfato a Giro e Tour nella stessa stagione in quel 1998 che
sembrava l’inizio di un ciclo leggendario e che invece era stato soltanto la
vigilia del dramma. Il Pirata sarebbe stato spazzato via a beneficio di
concorrenti posticci come Armstrong o Ulrich. Per il tricolore era scesa notte
fonda, le montagne d’Oltralpe erano diventate di nuovo invalicabili.
Ci avevano riscaldato soltanto le
volate del Re Leone Mario Cipollini o di Alessandro Petacchi, quest’ultimo
capace di vincerne quattro nell’edizione del 2003. Ma sotto l’Arc du Triomphe l’Inno di Mameli non
aveva più suonato. Aspettiamo di risentirlo domenica, e con noi – incredibile a
dirsi – lo aspettano i francesi, che hanno imparato ad amare questo ragazzo
siciliano per il suo stile e la sua semplicità, e che lo apprezzano come
vincitore vero al pari di pochi altri, eccezion fatta ovviamente per i loro enfants du pays.
Vincenzo Nibali vince sulle due
ruote e convince quando parla ai microfoni. Signore al punto da lasciare ad un
atleta di casa la maglia gialla almeno nel giorno della Presa della Bastiglia,
il 14 luglio. O da non dimenticare pochi giorni dopo, il 18, di mettersi alla
testa di quanti commemorano il centenario della nascita del più grande uomo di
sport e maestro di vita nonché uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi,
Gino Bartali. Del quale adesso è fin troppo facile designarlo come degno erede.
Di sicuro Ginettaccio sulla sua nuvola stasera sta sorridendo, e per una volta
guardando giù verso questo ragazzo capace di un’impresa molto simile alle sue
non dice che “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”.
Nibali vince alla maniera dei
grandi, non solo i suoi connazionali del passato, ma anche alla maniera di
Hinault, Indurain, Merckx. Lasciando la sua firma sulla tappa più prestigiosa e
decisiva. Il Tourmalet sta al Tour come il Mortirolo al Giro d’Italia. Chi
vince qui entra nella leggenda a prescindere. I Pirenei vogliono vedere in
faccia l’uomo ed il ciclista, tanto più quando giungono dopo i Vosgi e le Alpi.
Nibali è in maglia gialla da Sheffield, ma prima di Parigi non vuole limitarsi
a difendere, a controllare. Vuole l’ultimo acuto. Vuole Hautacam, l’arrivo in
salita dopo lo strappo del Tourmalet, il punto più in alto del Tour de France,
la montagna più ripida.
Va via a 10 chilometri dal
traguardo, Vincenzo. La pendenza oscilla tra il 7% e il 10%, ma lui sembra
quasi in gita domenicale. La scena dell’arrivo è di quelle storiche, che
resteranno negli occhi e nel cuore. E proprio il cuore si tocca il ragazzo che
ha i denti di squalo disegnati sulla bici, prima di passare la linea bianca e
di rifugiarsi in lacrime tra le braccia del suo direttore sportivo, quell’Alexandr
Vinokurov manager dell’Astana che è subito dopo il primo a chiamarlo senza
mezzi termini maitre du Tour. Il
padrone del Tour de France.
Gli chiedono davanti ai microfoni
se possono chiamarlo davvero così, e lui finalmente si rilassa, si scioglie in
un sorriso. “Si, ora si può dire”. La strada per Parigi, le ore che mancano a
domenica non scorreranno mai abbastanza in fretta.
Nessun commento:
Posta un commento