L'estate del 1998 coincise con il
momento più felice, ancorché conquistato a caro prezzo, della vita di Marco
Pantani. Al Giro del 1999 era talmente favorito che nemmeno la proverbiale
sfortuna, sotto forma di un salto di catena a Oropa a pochi chilometri
dall'arrivo, sembrava poterci fare nulla. Sembrava, appunto.
A Madonna di Campiglio, il 4
giugno, vinse la terzultima tappa portando il distacco su Savoldelli, il
secondo in classifica, a quasi sei minuti. Il giorno dopo c'era il Mortirolo,
per chi sa un po' di ciclismo notoriamente il paradiso e l'apoteosi degli
scalatori. Quasi una passeggiata per Marco, un inferno per gli altri. Il giorno
dopo ancora, c'era la passerella a Milano e un nuovo capitolo da aggiungere
alla sua leggenda.
Alle 10,00 circa, il destino
colpì Marco alle gambe peggio di qualunque fuoristrada o gatto randagio. La
Direzione Corsa lo squalificò sulla base dei risultati del controllo sul sangue
effettuati dai medici dell'UCI: il valore del suo ematocrito, il tasso di
concentrazione dei globuli rossi, era superiore dell'1% a quello consentito,
51%. Con 52%, Pantani fu disarcionato dalla bici e costretto a fermarsi. La Federazione
non lo sapeva, ma aveva appena fermato la sua stessa vita. A nulla valsero le
proteste di tifosi e anche compagni, Savoldelli si rifiutò di indossare la
maglia rosa rischiando la squalifica. La Mercatone Uno, la squadra del Pirata,
si ritirò in blocco dal Giro. Niente da fare, Pantani fu lasciato fuori, il
Giro lo vinse un altro di cui non si ricorda nessuno. E il peggio doveva ancora
venire.
Marco non era risultato positivo
al doping, aveva assunto sostanze che agivano sull'ematocrito in violazione di
una norma introdotta da poco con la buona intenzione di tutelare la salute dei
ciclisti. Tuttavia nessuno percepiva questa violazione come qualcosa di grave,
o di veramente influente sui suoi risultati. Il Pirata in salita volava perché
era il Pirata. Perché le sue gambe schiantavano tutto e tutti, strada e fatica
comprese. La sua forza era nel fisico e nel carattere. Proprio in quest'ultimo,
però, accusò il colpo più duramente. «Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e
sono tornato a correre.
Questa volta, però, abbiamo
toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile», dichiarò. La squalifica
comminatagli, 15 giorni, gli avrebbe consentito di andare al Tour, ma lui non
se la sentì e si chiuse in casa, per sfuggire alla pressione dei media
scatenati ed al nuovo insidioso avversario che gli si era improvvisamente
affiancato: la depressione.
Cominciavano a girare voci (mai
provate e non si sa quanto interessate) circa un coinvolgimento del Pirata nel
doping vero e proprio. Persino la sua fidanzata, la danese Christine Janssen lo
abbandonò, finendo per dichiarare a un giornale svizzero che l'ex fidanzato
faceva uso regolare di sostanze dopanti. Per quanto sia risultato in seguito
evidente che il doping nel ciclismo fosse pratica comune, entro certi limiti,
le accuse evidentemente erano una macchia troppo infamante per un animo come il
suo.
Ce n'era di che abbattere un
toro. Marco Pantani non si riprese più. Sebbene nei quattro anni successivi
tentasse a più riprese di riannodare il filo della sua carriera, incrociando
anche la strada di quel Lance Armstrong che stava approfittando della sua
sostanziale uscita di scena per dare inizio a quella che sarebbe stata la sua
fasulla epopea, Marco ritornò se stesso solo per brevi istanti. Come il giorno
che batté proprio Armstrong a Mont Ventoux (e quest'ultimo, per non smentire il
suo animo da sempre avvelenato, non trovò di meglio che dichiarare che aveva
lasciato graziosamente la vittoria a Marco per ridargli morale, ottenendo
invece di farlo arrabbiare). L'americano, che lo aveva definito uno dei più
grandi scalatori di tutti i tempi, probabilmente temeva più di ogni altro un ritorno
di Marco. Tanto quanto lo desideravano i tifosi.
Nel 2003 Marco decise finalmente
di affrontare la sua depressione ricorrendo all'aiuto di medici specialisti. Ma
era troppo tardi, il malessere aveva scavato troppo dentro di lui. In una
lettera del dicembre di quell'anno, Marco Pantani consegnò ai suoi tifosi,
all'opinione pubblica i suoi sentimenti più riposti, le ferite di un animo
straziato che non trovava più pace. «Ho solo perso la mia voglia di essere come
tanti sportivi (...) che le regole ci siano, ma siano uguali per tutti (....)
ma andate a vedere cosa è un ciclista (....) mi sento ferito e tutti i ragazzi
che mi credevano devono parlare».
I ragazzi credevano in lui. Ci
credono ancora, se è per quello. Ma lui non sentiva più quel calore che gli
dava la gente lungo la strada, aspettando il suo passaggio e sperando di
vedergli compiere il mitico gesto, quel gettare via il berretto che segnava
l'avvio della sua proverbiale irresistibile fuga. Adesso era la vita che gli
sfuggiva. Lui che forse non si era mai dopato per correre, o almeno non più di
tanti altri campioni conclamati e sicuramente molto meno di quanto sarebbe
emerso in seguito per Armstrong o altre primedonne, adesso doveva doparsi per
vivere.
Il monumento a Marco Pantani |
Quando lo trovarono nella stanza
dell'albergo di Rimini in cui si era recluso per l'ultima volta nel giorno di
San Valentino del 2004, nel suo sangue c'erano ovviamente le tracce
dell'overdose di cocaina che lo aveva ucciso, causandogli un edema polmonare e
cerebrale. L'autopsia in compenso consentì di escludere che nella sua carriera
avesse fatto ricorso frequente ed in quantità all'Epo, la sostanza che
aumentava il tasso di concentrazione dei globuli rossi nel sangue. Le sue
vittorie erano state tutte vere. Ma questo la gente lo sapeva già. Certe cose
si avvertono a pelle, basta guardare negli occhi un campione che passa stravolto
dalla fatica.
Negli occhi di Marco c'era la
voglia di vincere, di rivincita di un talentuoso e sfortunato ragazzo di Romagna.
In quelli di Armstrong, per smascherare il quale ci sono voluti più di dieci
anni di battaglie legali, a ben vedere si leggeva da subito il freddo come
l'acciaio di un business man disposto a tutto e consapevole delle connivenze di
cui poteva approfittare. Non c'era bisogno di analisi mediche e di pronunciamenti
di federazioni varie per capire che abbiamo rivisto per un'ultima volta il
grande Ciclismo con Marco Pantani detto il Pirata. E quel mondo è finito per
sempre il 14 febbraio 2004.
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