Germania. Per la prima volta ne
scrisse Tacito, e fu un best seller, che aprì la porta del mondo romano su un
universo fino allora completamente sconosciuto se non a chi l’aveva visitato al
seguito delle Legioni. A quell'epoca loro erano i barbari, noi il mondo civilizzato,
che tuttavia di lì a poco avrebbe mostrato le prime crepe.
Da allora le cose sono cambiate,
anche se su ciò che c'é al di là del Reno non ne sappiamo molto di più. Dei tedeschi sappiamo quello che ci
hanno raccontato i nostri padri e i nostri nonni, e sono racconti che parlano
di sopraffazione, orrore, sangue e distruzione. Un po’ come quelli degli
storici successivi a Tacito, quelli del tardo impero che veniva spazzato via
dalle orde dei Vandali e dei Visigoti. Oppure quello che riportano i nostri
emigrati, e sono spesso racconti infarciti di sofferenza, umiliazione, fatica,
disprezzo.
Sappiamo questo e poco altro. Il
giornalismo si discosta raramente dai cliché. Quello tedesco è fermo agli
spaghetti con la P38, quello italiano non va oltre il samba e il Carnevale di Rio
se si parla di Brasile, della Bundesbank e della Cancelliera di Ferro Merkel se
si parla di Germania. I tedeschi li conosciamo bene solo perché li incontriamo
sui campi di calcio, ed è una storia che fino ad ora era per noi a lieto fine. Troppo
lieto per essere vero.
Giocano la Germania e l’Argentina,
noi prendiamo l’Argentina, istintivamente. Successe già nel 1990, all’epoca delle
notti magiche finite male per colpa
della papera di Zenga e di Donadoni che non sapeva tirare i rigori. Per colpa
di Maradona, gran giocatore ma odioso sobillatore della gente di Napoli. In
finale, la voglia di fischiare l’inno argentino e di tifare Germania era tanta.
Mio padre mi sorprese, “tifare Germania è concettualmente impossibile”, mi
disse, liquidando la questione.
Per lui la Germania era rimasta
la Wehrmacht, il nonno che rimase mesi
sul tetto di casa per non essere rastrellato dai nazisti e portato in Germania
a lavorare come schiavo, o peggio. Era l’attraversamento delle linee per andare
a prendere la farina al mercato nero in campagna, lui bambino di 10 anni e il
nonno che in quei casi era costretto ad abbandonare il rifugio, se no la
famiglia non mangiava. Era Italia-Germania 4-3, la volta che avevamo rialzato
la testa spezzando la schiena ai crucchi che nel dopoguerra avevano rialzato la
loro troppo presto.
C’è poco da fare. L’Argentina è
un paese lontano per me che non ho parenti emigrati. Dall’altra parte del mondo,
senza legami con la mia vita se non per un paio di calciatori di nome che hanno
giocato nella Fiorentina. Eppure, io che sono nato 15 anni dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale, io che non ho parenti emigrati in Germania, prendo l’Argentina
senza esitazioni. Mi sembrerebbe di tradire il mio sangue e generazioni della
mia famiglia, del mio popolo. Per me è così, per tanti altri italiani anche. Nella
prossima vita si vedrà, in questa tifare Germania è concettualmente
impossibile. In ogni campo e in ogni sede.
Non sono un popolo che si fa
amare, i tedeschi. Anche dopo che hanno dismesso le mostrine della Wehrmacht o delle SS, la loro apparenza
non ci piace, a pelle. Nemmeno quando li abbiamo vicini di ombrellone. Dopo la
riunificazione e l’Euro, poi, la Germania è tornata ad essere vissuta come un
pericolo. Non più militare, ma economico. Cambia niente, Hitler ci voleva
soggiogare con i carri armati, la Merkel con i bond.
Di loro sappiamo quel poco che
conferma la nostra istintiva repulsione, e basta. Non filtra per esempio che
dai tempi di Tacito forse le parti si sono invertite, loro sono i più civili,
quelli che hanno fatto approvare per esempio la legge sul salario minimo
garantito. Noi siamo diventati i barbari, quelli che ormai si fanno governare
da Jenny ‘a carogna o da dei parolai
senza fine. Senza vergogna e senza controllo.
Ci riempiva d’orgoglio guardarli
dall’alto in basso, noi che stavamo con loro 4-3 non solo all’Azteca di Città del Messico, ma anche
nel conto complessivo dei mondiali vinti. Noi che con loro abbiamo sempre vinto
quando c’era in palio qualcosa, l’ultima volta li abbiamo fatti piangere due
anni fa. Da allora, loro con la stessa squadra hanno vinto il mondiale, noi
siamo andati fuori al primo turno. Loro forse hanno tirato un sospiro di
sollievo per non aver incontrato la bestia
nera Italia sul cammino per il Maracanà (hai visto, o rivisto, mai….), noi
abbiamo fatto altrettanto perché con l’Armata Brancaleone che avevamo stavolta
non si sa come sarebbe andata a finire. Meglio uscire prima.
Loro hanno alzato la Coppa che
gli portammo via da casa loro nel 2006, pareggiando i conti con Italia 90 e
ritornando in vantaggio 4-3. Adesso sono in vantaggio loro, perché a parità di
mondiali vinti loro hanno molti piazzamenti in più. Su 17 partecipazioni, 13
volte sono arrivati almeno in semifinale. Noi 7 volte sole. Loro hanno giocato
8 finali, noi 6. Solitamente, o si vince o si va fuori al primo turno. La Germania
invece in fondo ci arriva quasi sempre.
Al Maracanà hanno vinto
prendendosi tutti i record che erano l’orgoglio del Brasile. Prima squadra
europea a vincere in Sudamerica, come il Brasile aveva fatto in Europa nel
1958. La Spagna è stata la prima a vincere fuori continente, ma il tabù dell’America
Latina l’hanno rotto loro, e con sette schiaffoni a domicilio ai presunti e presuntuosi padroni del
calcio mondiale. Il capocannoniere mundial
non è più Ronaldo, che ormai fa la pubblicità al gioco d’azzardo, grasso come
un’oca da paté. E’ Miroslav Klose,
che al quarto mondiale e a 36 anni è più fresco e pimpante di quando esordì in
Corea. E che ha eclissato perfino il ricordo di una leggenda come Gerd Muller, tedesco anche lui.
E poi c’è la quarta stella,
quella di cui credevamo di avere l’esclusiva, al punto di stare a cantare sull’albero
come le cicale disperdendo il nostro patrimonio di giovani calciatori, mentre
le formiche tedesche programmavano la loro riscossa tirando fuori una golden generation con pochissimi
precedenti nella storia.
Philip Lahm alza la quarta coppa,
come Fritz Walter alzò la prima, Paul Breitner la seconda e Klaus Augenthaler
la terza. Di questi quattro deutscherteam,
forse proprio quello attuale è il più forte. Nel 1954 batterono a sorpresa la Grande Ungheria, ma
su quel successo è rimasta l’ombra del doping, perché Walter & C. finirono
misteriosamente in ospedale il giorno dopo la finale. Quelle voci non si sono
mai sopite.
Nel 1974 furono abbastanza forti
da sorprendere la leggendaria Olanda di Cruyff, che pensava di dover vincere
per diritto divino e volontà del Fato. E’ opinione comune che se quella partita
si rigiocasse 100 volte, 100 volte vincerebbero gli Orange. Invece quella volta vinsero loro.
Nel 1990 fu l’Italia di Vicini a
farsi sorprendere dall’Argentina, altrimenti la vita in finale per i tedeschi,
ancora dell’Ovest, sarebbe stata assai più dura. Fu una brutta finale tra
Germania e Argentina, finita 1-0 come quella di ieri ma giocata molto peggio. Una
conclusione indegna delle notti magiche
che piacque solo ai diretti interessati, che per la prima volta si ritrovarono
uniti a festeggiare sotto la Porta di Brandenburgo.
Stavolta non ci sono discussioni,
erano loro i più forti. Poteva vincere l’Argentina se al posto di Messi avesse
avuto un fuoriclasse vero come Maradona, o se al posto di Higuain avesse avuto
un centravanti vero come Mario Kempes o Jorge Valdano. Quattro occasioni da
rete la Germania non le aveva concesse a nessuno. Gol sbagliati gol subito, perché
invece alla grande squadra di occasioni gliene basta una. Goetze, come Iniesta,
era un predestinato. Nessuno degli argentini lo era.
Il 4-3 è finito. Si chiude un’epoca
lunghissima nata sull’onda lunga del gol di Rivera. Per tornare avanti – se mai
ci torneremo – con i tedeschi dovremo inventarci qualcosa di miracoloso. Solo
otto anni fa sopra Berlino c’era un cielo azzurro. Adesso è bianco, e sopra
tutto il mondo. Siamo quattro pari, ma a ben guardare le nostre stelle non
brillano più.
Nessun commento:
Posta un commento