E’ l’altro anniversario con cui
ogni anno si chiude il cerchio doloroso della nostra memoria civile. La rabbia
e l’orgoglio che proviamo da 25 anni a questa parte cominciano ad acuirsi il 23
maggio e raggiungono l’apice il 19 luglio. Il fragore assordante innescato
dalla mano omicida della Mafia comincia a Capaci e finisce a Via d’Amelio a
Palermo. La lista dei nostri martiri si apre con Giovanni Falcone e si chiude
con Paolo Borsellino.
Nel mezzo, una lunga lista di
caduti per far sì che questo paese in cui ci siamo ritrovati a vivere fosse un
po’ più simile a come l’avevamo desiderato. Da Cesare Terranova a Carlo Alberto
dalla Chiesa, da Rocco Chinnici a Rosario Livatino, da Boris Giuliano a Ninni Cassarà,
ai tanti, troppi agenti delle loro coraggiose ma inutili scorte. Inutili,
perché i loro nemici sapevano tutto prima di loro e più di loro, prima ancora che
loro si muovessero.
Ad aprire e chiudere – si è detto
- loro due, che ci ricorderemo sempre come li ritrae, fianco a fianco, la loro
foto insieme più famosa, quella in cui sorridono apparentemente spensierati,
come se una minaccia mortale non fosse stata costantemente sospesa sopra le
loro teste. Perché, come erano soliti dire, “chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ce l’ha può morire una volta sola”.
Se Paolo Borsellino nei suoi
ultimi giorni di vita aveva un po’ di umana paura, per sé e per i suoi cari,
non lo dette a vedere, e non rallentò di un millimetro la sua azione. Nella sua
agenda rossa (che è scomparsa da 25 anni, da quando cioè pochi minuti dopo la
strage in cui scomparve lui stesso una mano misteriosa – che molti sospettano
essere appartenuta ad un servitore, almeno di nome, di quello Stato che stava
trattando con la Mafia che avrebbe invece dovuto combattere – la sottrasse
insieme alla sua borsa miracolosamente illesa insieme a poche altre cose in
quella strada devastata dal tritolo), l’ultimo dei giudici coraggiosi aveva
continuato ad annotare fino all’ultimo momento concessogli prove e indizi di
quella trattativa innominabile, di ciò che aveva scoperto sulla morte del suo
amico e collega Falcone, di tutto ciò che poteva avvicinare le Forze
dell’Ordine a mettere le mani sul Capo dei Capi, Totò Riina detto u curtu,
il boss di quei Corleonesi che dopo essersi impadroniti di Cosa Nostra
sterminando tutti i rivali, in quel momento sembravano aver messo in ginocchio
tutta l’Italia.
Come faceva appena poteva, il
giudice si recò quella domenica 19 luglio 1992 a fare visita alla madre, che
viveva in Via d’Amelio. Dopo aver pranzato per l’ultima volta con moglie e figli,
nel primo pomeriggio Borsellino suonò il campanello della madre. Era il momento
per cui i killer mafiosi si erano preparati. Una 126 imbottita di semtex e tritolo, una miscela di esplosivi
a potenziale devastante, fu fatta esplodere proprio in quel momento, portandosi
via il giudice ed i cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino
Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina e Claudio Traina. Un sesto agente, Antonino
Vullo, si salvò solo perché in quel momento stava ancora parcheggiando uno dei
veicoli della scorta.
Ai funerali di Borsellino, che la
moglie Agnese pretese fossero svolti in forma privata senza la partecipazione
di nessun rappresentante di quello Stato che, come minimo, non aveva saputo
proteggere suo marito, una folla commossa e composta si limitò ad applaudire
l’orazione funebre tenuta dal vecchio giudice Antonino Caponnetto, il direttore
del Pool Antimafia in cui Borsellino e Falcone avevano lavorato. Diversamente
era andata qualche giorno prima ai funerali degli agenti di scorta, nella
Cattedrale di Palermo, quando un cordone di 4.000 agenti non era bastato a
trattenere una folla inferocita che sembrò avventarsi perfino contro il
neo-eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Tutti hanno ancora
negli occhi l’immagine del capo della Polizia Parisi che, stravolto, cerca di
fare scudo con la propria persona a quella del Presidente, che uscì incolume
dal tumulto quasi per miracolo.
Antonino Caponnetto, che alla
notizia della morte di Borsellino aveva commentato a caldo, sconsolato, “non
c’è più speranza….”, raccontò poi come 20 giorni prima di essere assassinato lo
stesso Borsellino avesse richiesto, inutilmente, la rimozione di tutti i veicoli
parcheggiati in Via d’Amelio nei pressi dell’abitazione della madre, e di non
aver potuto egli stesso sapere a distanza di anni nemmeno il nome del
funzionario che si rifiutò di accogliere la richiesta del collega.
Dopo 25
anni, sono ancora tante le cose del resto che aspettiamo tutti di sapere, dalla
verità su questa trattativa tra la Mafia e lo Stato, per la quale sono stati
finora processati (e giustamente assolti) soltanto dei Carabinieri che al
limite ne avevano potuto solo eseguire le direttive, fino ai nomi di tutti
coloro che parteciparono attivamente sia come mandanti che come esecutori alla
strage di via d’Amelio, o che anche soltanto vi collaborarono lasciando solo il
giudice coraggioso che con la Mafia non voleva trattare e che per questa gente
non era un esempio, ma solo un ostacolo da rimuovere.
Pochi mesi dopo, il Capo dei Capi
fu preso in pieno centro di Palermo dagli uomini del reparto dei Carabinieri
denominato CRIMOR, comandato dal Capitano Ultimo. Qualcosa si era finalmente
mosso, e l’Italia – persi Falcone e Borsellino – ebbe comunque di nuovo degli
eroi da celebrare e con cui continuare la lotta mortale al crimine organizzato
e alle sue collusioni con lo Stato. Ma questa è un’altra storia, e vale per un
altro anniversario.
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