«Questa dimostrazione di capacità
tecnica e organizzativa che stiamo offrendo alla pubblica opinione mondiale
riscatta l’immagine di un’Italia approssimativa e cialtrona e mi inorgoglisce profondamente».
Con queste parole Gregorio De Falco, comandante della Capitaneria di Porto di
Livorno, ha riassunto ieri il sentimento di una nazione intera nelle fasi cruciali
del recupero della Costa Concordia dal rovinoso (anche per l’immagine del
nostro stesso paese) naufragio di 20 mesi fa.
Ce lo siamo sempre detti, noi
italiani tiriamo fuori il meglio di noi stessi soltanto nei momenti in cui ci ritroviamo
con le spalle al muro, quando il resto del mondo scuote la testa con disprezzo
assistendo alle situazioni incresciose in cui andiamo a metterci con le nostre
stesse mani. Proprio allora arriva puntuale lo scatto d’orgoglio, il colpo di
reni che ci riporta a testa alta, a sollevare la Coppa del Mondo o comunque a
recuperare un’immagine che sembrava irrimediabilmente compromessa.
Nelle stesse ore dell’impresa
della Concordia, il commissario europeo Olli Rehn, che si trova nel nostro paese
per una audizione parlamentare, ha commentato l’attuale situazione politica ed
economica italiana con parole che pur scatenando le immediate e prevedibili
reazioni di un mondo politico sempre pronto a riscoprire l’orgoglio nazionale
solo quando coincide con il suo interesse di parte hanno fotografato l’immagine
dell’Italia altrettanto bene delle parole del Comandante De Falco. «L’Italia è
come la Ferrari per stile e capacità, ma ora le occorre un motore più
competitivo, inutile perdere tempo ai pit stop».
Già, il cittadino italiano che
ieri si è inorgoglito per il lavoro dei suoi tecnici e delle sue imprese nel
recupero del Titanic dei nostri tempi, che aveva smadonnato non poco la
domenica precedente per l’ennesima figuraccia della Scuderia del Cavallino
Rampante (attardata dal cattivo sviluppo di una macchina non all’altezza del
pilota fuoriclasse che la guida, nonché da una strategia fatta di piccolezze,
meschinità da automobilisti della domenica che cercano furbescamente di passare
prima degli altri al casello autostradale), è lo stesso che osserva attonito
l’evoluzione, o per meglio dire l’involuzione di questa XVI legislatura e della
crisi politica ed economica che essa non prova neanche a gestire, meno che mai
a risolvere. E’ lo stesso anche che puntualmente ad ogni consultazione
elettorale manda a Montecitorio e Palazzo Madama una classe politica tra le più
neglette della storia mondiale, salvo poi lamentarsene.
Enrico Letta e Giorgio Napolitano |
Ogni popolo ha il governo che
si merita, diceva un vecchio adagio. La Ferrari ha gli ingegneri che si è scelta,
così come l’Italia ha la classe politica che ha votato liberamente. Il paese
che lunedi ha tradotto nella realtà in mondovisione un kolossal tra i più
spettacolari di sempre è lo stesso che non riesce ad organizzare un minimo di
gestione della cosa pubblica che si discosti dal ridicolo. «Se il ridicolo
uccidesse, in Italia ci sarebbe una strage», diceva Indro Montanelli. E’ questo
che ci meritiamo, l’eterna dicotomia tra l’altare e la polvere, tra le stelle e
le stalle, tra il ridicolo e l’orgoglio, tra Francesco Schettino, comandante
che abbandona la nave e i suoi passeggeri, e Manrico Giampedroni, ufficiale di
bordo che rischia di rimanere intrappolato nel relitto con una gamba rotta perché
anziché fuggire come il suo comandante scende una volta di più nella stiva a
controllare che non ci siano rimasti passeggeri?
Olli Rehn è finlandese, viene da
una realtà in cui lo stato sociale è da tempo un valore acquisito e
consolidato, al pari della corretta gestione di bilancio. Che ci paragoni ad
una Ferrari è già tanto, i nordici solitamente non ci amano, troppo distante il
Belpaese con il suo casino esistenziale dalla Scandinavia Felix con il suo
rigore protestante. Le sue parole peraltro misurate hanno già scatenato un
putiferio, dal PDL al Movimento Cinque Stelle l’uscita del caporale di
giornata Rehn è stata stigmatizzata come l’ennesima ingerenza europea nei
nostri affari interni. Come se l’entrata in Europa, in questa Europa ingessata
da Maastricht e da Schengen non fosse stata decisa liberamente da un governo
altrettanto liberamente eletto dagli italiani. Quello di Romano Prodi e
dell’Ulivo, per chi non lo ricordasse.
Oli Rehn |
Queste sono le estreme
conseguenze, fino all’essere diventati il lebensraum della Germania di Angela
Merkel e a subire gli ultimatum sui conti in pareggio di qualunque commissario
UE che si trovi a passare di qui, come gli scapaccioni che prendevamo da
piccoli ad ogni pié sospinto da genitori meno comprensivi di quelli di adesso.
Mal voluto non è mai troppo, recitava un altro adagio. Mal voluto e reiterato,
verrebbe da aggiungere. Il governo Letta prende la palla lanciata da Rehn al
balzo per ventilare l’aumento dell’IVA al 22% a coprire il mancato introito
dell’IMU da esso stesso deliberato. Delle promesse elettorali fatte da dieci e
passa liste non si ricorda più nessuno. Il PDL si preoccupa di salvare il suo
leader, in sede di trattativa finale accetterebbe qualsiasi cosa. Il PD si
preoccupa di sostituire lo smacchiatore di giaguari con il sindaco “asfaltatore”,
Letta faccia pure quello che crede nel frattempo, compreso lasciarsi sfuggire
in un lapsus freudiano che l’attuale sistema si regge soltanto su lui stesso e
Re Giorgio del Quirinale. Il Movimento Cinque Stelle sembra Beppe Grillo dopo
essere stato buttato fuori dalla Rai: sparito.
E’ un sistema-paese che da
vent’anni si regge solo sul pro o contro Berlusconi. Anche adesso, nella sua
crisi probabilmente finale (del sistema-paese, non di Berlusconi), con migliaia
di profughi che si riversano ogni giorno sulle sue coste e sulla sua economia
da raschio del fondo del barile, l’Italia si ferma per votare l’ineleggibilità
di un leader politico che viene eletto da vent’anni al Parlamento a larghissimo
consenso. La sensazione è che a questa Italia – come alla Ferrari – serva ben
più di un motore, bisogna rifare tutto, dalla catena di montaggio dei singoli
pezzi fino all’amministratore delegato. Fino alla proprietà stessa, che nel
caso del paese coincide con il popolo.
Centocinquantadue anni dopo
l’Unità d’Italia, gli italiani restano ancora da fare, per dirla con la
buonanima del Conte di Cavour. Godiamoci il successo della Concordia, e l’orgoglio
che giustamente ci ha provocato. Giorni così, da queste parti, è destino forse
che se ne vedano pochi.
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