Alle 1,23 del mattino la
fortissima pressione esercitata dall’idrogeno liberato dal brusco ed
incontrollato aumento della temperatura del nocciolo del reattore n. 4 provocò
la rottura delle tubazioni del circuito di raffreddamento. L’idrogeno entrò in
contatto con la grafite incandescente delle barre di controllo e con l’aria.
Pochi istanti dopo, l’esplosione terrificante fu capace di scoperchiare il
reattore proiettandone in aria il pesante coperchio di oltre 1.000 tonnellate.
Dal cilindro non più chiuso ermeticamente
nelle ore successive si disperse nell’atmosfera una quantità tale di isotopi
radioattivi da far classificare l’incidente al massimo grado della speciale scala
INES con cui si misurano gli incidenti nucleari: livello 7. E da contaminare
significativamente tutta l’Europa Orientale e la Scandinavia e in misura minore
ma comunque preoccupante anche quella Occidentale ed i Balcani.
Perfino sulla costa orientale del
Nord America furono riscontrate le tracce di radioattività che attestavano la
gravità dell’incidente occorso al reattore n. 4 della centrale nucleare Vladimir Ulianov Lenin, situata nell’Ucraina
settentrionale a poca distanza dal confine con la Bielorussia, all’epoca
entrambe facenti parte della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Cernobyl. Un nome che è diventato sinonimo di oscuro terrore nella
storia contemporanea, come quello di un protagonista terrificante delle favole
che si raccontavano una volta ai bambini per farli star buoni attraverso l’inculcazione
della paura. Un nome che significa la madre di tutti i terrori, la fine del
mondo, l’Armageddon che già i padri della fissione nucleare avevano
prefigurato, mettendo in guardia l’umanità sul lato oscuro della loro scoperta
per altri versi epocale.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, il
mondo si era abituato a vivere sotto la cappa di terrore distesa dal progresso
nucleare. Rispetto alla bomba atomica semmai, le centrali nucleari avevano fino
a quel momento rappresentato il volto buono di quel progresso. La dotazione all’umanità
di una potenza energetica che le generazioni precedenti avevano soltanto potuto
sognare attraverso le visioni di pochi geni della scienza primordiale.
La carta geografica delle nazioni
più sviluppate si era costellata a mano a mano del simbolo del nucleare ad
indicare le località in cui a partire dagli anni sessanta avevano cominciato ad
entrare in funzione le centrali, benedette dalla definizione di atomi per la pace attribuita loro dal
presidente americano Dwight D. Eisenhower e non più smentita dai successori o
da altri leader occidentali almeno fino al 26 aprile 1986.
Three Mile Island,
la centrale della contea di Dauphin, Pennsylvania che il 28 marzo 1979 fu
teatro del primo grave incidente nucleare (tutt’ora il più grave sul continente
americano) ed in cui fu sfiorata – e per fortuna poi scongiurata – la catastrofe,
passò quasi sotto silenzio. Erano i tempi in cui il neopresidente Ronald Reagan
faceva togliere dal tetto della Casa Bianca i pannelli solari fatti installare dal
suo ecologista predecessore, Jimmy Carter, e nessuno batteva ciglio. L’opinione
pubblica non era pronta a considerare il terrore nucleare, che non fosse quello
ormai consueto prodotto dagli SS-20 sovietici puntati su tutte le città
occidentali importanti.
La squadra dei vigili del fuoco del tenente Vladimir Pravik |
A Cernobyl, sette anni dopo, non
si poté nascondere nulla, quand’anche il regime sovietico agonizzante sotto la
guida di Mikhail Gorbacev avesse voluto farlo. L’incidente fu talmente grave
fin da subito da monopolizzare i media di tutto il mondo e da provocare uno
shock irreversibile. Secondo le ricostruzioni successive, più che a difetti di
progettazione della centrale la catastrofe fu ascrivibile ad errore umano. Il
25 aprile di quell’anno il reattore n. 4 doveva essere fatto oggetto di normali
operazioni di manutenzione, che furono condotte a quanto pare con faciloneria e
negligenza.
Come già era successo a Firenze
per l’Alluvione di vent’anni prima, la struttura fu sottoposta ad una
sollecitazione eccessiva provocata da operazioni umane sbagliate, nella fattispecie
un brusco, incontrollato e presto non più controllabile aumento della potenza e
quindi della temperatura. L’acqua di raffreddamento si scisse nelle molecole di
ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo a pressione elevata provocò il disastro.
La radioattività liberata il 26
aprile 1986 dal reattore della centrale Lenin di Cernobyl provocò nell’immediato
57 vittime, i vigili del fuoco accorsi per far fronte alle conseguenze
immediate dell’esplosione. Il resto lo fece il fall out radioattivo, la cui entità fu amplificata dalle
condizioni metereologiche del continente europeo. I venti e le zone di alta
pressione a cuneo spingevano inesorabilmente gli isotopi verso ovest.
la "zona proibita" |
Secondo i dati accertati
successivamente da appositi comitati istituiti dalle Nazioni Unite, da Greenpeace, dal gruppo dei Verdi
presente fin da prima dell’incidente nel Parlamento Europeo e dalle altre
associazioni ambientaliste che sorsero proprio sulla spinta emotiva causata
dall’incidente stesso, è stato calcolato che le vittime ufficiali dell’esplosione
del reattore 4 ammontino ad una cifra compresa tra i 6.000 morti indicati dalle
autorità ufficiali ed i 60.000 piuttosto stimati dalle organizzazioni non
governative. L’area di Cernobyl è a tutt’oggi proibita, interdetta alla
popolazione, e lo sarà per lungo tempo.
In realtà, non è dato sapere qual
è stata la ricaduta effettiva sulla salute degli europei (e non solo) della
diffusione degli isotopi radioattivi. Su chi era vivo all’epoca e sui bambini
nati negli anni successivi da genitori che avevano respirato e si erano nutriti
del precipitato di Cernobyl. Gli studi dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità nei vent’anni successivi si accentrarono giustamente sulla zona
settentrionale dell’Ucraina, l’epicentro del disastro. Leucemia, disfunzioni
tiroidee, tumori vari, deformità neonatali e altre malattie del secolo dell’atomo
si riscontrarono in quell’area per lungo tempo dopo la sepoltura del reattore
sotto l’ormai celeberrimo sarcofago. Nelle regioni europee più o meno
limitrofe, probabilmente le conseguenze andarono a confondersi e a
sovrascriversi su quelle di altri disastri ambientali più o meno grandi
accaduti successivamente, e sono ormai incalcolabili.
L’Unione Sovietica sopravvisse di
poco al suo reattore nucleare. D’altra parte, chi cercò di attribuire la colpa
dell’incidente esclusivamente all’inefficienza tipica della vecchia URSS per
una volta non ebbe buon gioco. L’ondata emotiva anti-nucleare si diffuse sul
continente europeo portando al boom dei Verdi un po’ dovunque, ed all’affermazione
dei pronunciamenti contro la costruzione di nuove centrali in alcuni paesi come
l’Italia, dove un referendum popolare le proibì definitivamente circa un anno
dopo.
Da allora, il dibattito sul nucleare
tuttavia non ha mai cessato di essere in corso, anche – se si vuole – con tutta
l’irrazionalità diffusa tipica di una discussione che spazia dalla fredda scienza
all’emotività del subconscio individuale e collettivo. L’Italia è un paese circondato
da centrali nucleari, Francia, Svizzera, Austria e Slovenia hanno reagito più
freddamente all’onda lunga di Cernobyl, continuando ad affidare il loro
approvvigionamento energetico a questi mostri del ventesimo secolo, magari – si
spera – riveduti e corretti nella progettazione.
L’Italia invece è rimasta ferma
al referendum del 1987 ed al suo niet
stampato nel nostro cuore in quei giorni in cui il reattore 4 di Cernobyl
bruciava a cielo aperto. Con tutte le conseguenze d’altro canto negative sulla
bolletta dell’ENEL, come lamentano i fautori del nucleare. In paesi come la
Finlandia, ormai disseminati di centrali, l’energia elettrica ed il
riscaldamento sono praticamente gratis. L’Italia si approvvigiona per gran
parte del suo fabbisogno all’estero, ed a caro prezzo.
Il dibattito è continuato e
continua. Ma siccome la storia segue percorsi suoi a volte imperscrutabili,
quando il pendolo sembrava oscillare di nuovo dalla parte del nucleare anche
nel nostro paese, ecco di nuovo i mass media accendere le telecamere sul luogo
di una nuova sciagura nucleare. Stavolta non nella vecchia patria del comunismo
agonizzante, ma bensì nel superefficiente Giappone, che costruisce le sue
centrali – essendo fatto di isole lunghe e strette – in riva al mare o a poca
distanza da esso.
Fukushima Dai-ichi |
A Fukushima Dai-ichi stavolta è
stata la natura a rivoltarsi contro il moderno Prometeo. Lo tsunami dell’11 marzo 2011 ha travolto i
primi tre reattori provocando la fusione dei rispettivi noccioli e la
dispersione nell’Oceano Pacifico degli isotopi radioattivi. Al pari dell’aria,
l’acqua è un conduttore di radioattività micidiale. E di nuovo di radioattività
è tornato quindi a nutrirsi l’uomo negli ultimi anni, anche se l’uranio
impoverito di tante bombe intelligenti disperse nei mari di vari teatri di
guerra avevano già costituito un antipasto consistente.
Anche l’incidente di Fukushima è
classificato 7 nella scala INES. Un nuovo potente monito alla razza umana che
gioca con la selvaggia potenza degli elementi della natura, senza comprenderne
fino in fondo la pericolosità. Sempre affascinata dagli apprendisti stregoni
che promettono un futuro da fantascienza e minimizzano i costi, soprattutto
umani. A costoro, vale la pena di ricordare il monito dello stesso Enrico Fermi,
il padre dell’atomo, ai suoi allievi: “non siate mai i primi, cercate di essere
secondi”.
Ma più che tutto vale la pena ed
è sufficiente forse ripetere quel nome, da favola terrificante della buonanotte
da raccontare a quell’eterno bambino che è rimasto l’uomo, sperando che almeno
la paura sia capace di ravvederlo.
Cernobyl.
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