lunedì 27 aprile 2015

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Quella corsa in Viale dei Mille



Campionato 1974-75. L’ultimo scudetto della Fiorentina comincia ad allontanarsi nel tempo e nella memoria, sbiadito anche e soprattutto dalla retrocessione sventata all’ultima giornata nel 1971 che comunque è costata alla società viola l’addio di Nello Baglini e Bruno Pesaola e la presa d’atto della necessità di avviare un nuovo ciclo. Una nuova linea verde, sulla falsariga della politica societaria avviata da Baglini e passata in mano al nuovo proprietario, Ugolino Ugolini, che cerca di fare del suo meglio per conciliare le esigenze di bilancio con le abitudini di una piazza che ha festeggiato due scudetti e una coppa internazionale in tredici anni, e soprattutto ha visto all’opera tanti campioni con la C maiuscola.
Quell’anno è andato via De Sisti, il numero dieci è sulle spalle di un altro predestinato, Antognoni. Dei ragazzi del 69 sopravvivono in pochi in viola, sostituiti da una nuova generazione ye-ye. Dopo Liedholm e Radice, a guidare questa banda di ragazzini di talento, capaci di repentini alti e di altrettanto improvvisi bassi, a trasformarli in una squadra che possa di nuovo combattere per il tricolore viene chiamato sulla panchina viola il mostro più sacro dell’epoca, Nereo Rocco. L’uomo che aveva inventato il calcio all’italiana, che aveva creato la leggenda del Milan europeo e mondiale prima di Berlusconi, era una scelta senza mezzi termini: era l’uomo giusto per tornare a vincere.
Ma il paron era nella fase crepuscolare della sua carriera. A Firenze sarebbe stata la sua penultima panchina, prima del canto del cigno due anni dopo al Milan, la sua seconda casa. Nella prima, nella natia Trieste, si sarebbe spento nel 1979 carico di trofei e di ricordi. Quello dell’anno trascorso a Firenze, sarebbe stato tutto sommato il peggiore. Quei ragazzini dai capelli lunghi, dai vestiti sgargianti e dai pantaloni a zampa d’elefante in perfetto stile dell’epoca, dalle auto di lusso e dalla tendenza ad una dolce vita che la Firenze di quel periodo tendeva ad assecondare benevolmente, non erano più fatti per comprendere il suo verbo ed attuarlo in campo.
Non erano più i tempi della Triestina e del Padova. Rocco si immusoniva in panchina, riuscendo solo a distribuire occhiatacce a quei figliol prodighi, quando tornavano tardi la sera e quando poi la domenica si vedevano i risultati altalenanti. Una partita bene e poi due male, mentre la tifoseria fiorentina, dal palato fino inversamente proporzionale alla pazienza, cominciava a rumoreggiare sempre più forte.
Si arrivò alla fine del girone di andata con una classifica che non era quella che la gente si attendeva. Oggi lo si definirebbe un “vivacchiare”. Quel 26 gennaio 1975 allo Stadio Comunale, come si chiamava allora essendo Artemio Franchi vivo e vegeto, venne a giocare la Sampdoria. E venne a vincere su una Fiorentina più indolente del solito, 2-0 con reti di Prunecchi e dell’ex Maraschi, uno degli eroi di quello scudetto che sembrava sempre più lontano. La contestazione che covava sotto la cenere finalmente esplose.
I giocatori rimasero chiusi per quasi due ore negli spogliatoi, uscendo alla fine accompagnati da qualche dirigente quando ormai credevano che la rabbia della gente fosse sbollita e che tutti avessero ripreso la via di casa. Non era così, e se ne accorsero a loro spese due ragazzotti che ebbero il torto di farsi vedere troppo distesi e sorridenti da chi invece –ed erano ancora tanti – non aveva voglia di ridere per niente.
Claudio Desolati e Walter Speggiorin videro subito la mala parata. E’ stato proprio Desolati, che all’epoca  aveva vent’anni e contro la Samp aveva giocato solo un quarto d’ora entrando nel finale al posto di Guerini, a raccontare in seguito cosa avvenne dopo.
«Io c’entravo poco, ma mi trovai in mezzo a quella bolgia e corsi come Mennea. Un dirigente stava accompagnando me e Speggiorin nella sede viola, che era nel viale dei Mille. Quando uscii capii subito che non era il caso di parlare con chi ci stava aspettando. C’era Carlo, il cuoco della nostra mensa. Gli dissi: coprimi, che io parto. Lui non capì, mi chiese che fai, ma ero già scappato. Più di cinquecento metri a tutto fuoco, anche se avevo uno strappo muscolare alla coscia destra. Ogni tanto mi voltavo e gli inseguitori perdevano terreno. Avevo la macchina in un garage, la presi e fuggii a casa. Quando arrivai avevo la febbre a 39 per la paura. Il giorno dopo però era finito tutto, arrivai allo stadio e nessuno mi offese ».
Quella stagione si concluse con Rocco che si dimise addirittura prima che la squadra giocasse la finale di Coppa Italia all’Olimpico, probabilmente stanco e disgustato da un’annata finita ben al di sotto delle aspettative (ottavo posto in campionato) e da un ambiente rispetto al quale era rimasto sostanzialmente come un corpo estraneo. Al posto del paron in panchina il 28 giugno 1975 a Roma c’era Mario Mazzoni, l’eterno vice di quegli anni. I viola piegarono il Milan per 3-2, e chissà che in quel successo non ebbe parte decisiva proprio la corsa su per il Viale dei Mille avvenuta qualche mese prima.
Conclude il suo ricordo Desolati, con una nota di attualità: «Quando la squadra perde, la gente ha sempre ragione (…) I tifosi hanno ragione: in campo bisogna correre». 
Ogni riferimento al presente è assolutamente voluto.

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