Campionato 1974-75. L’ultimo scudetto della
Fiorentina comincia ad allontanarsi nel tempo e nella memoria, sbiadito anche e
soprattutto dalla retrocessione sventata all’ultima giornata nel 1971 che
comunque è costata alla società viola l’addio di Nello Baglini e Bruno Pesaola e
la presa d’atto della necessità di avviare un nuovo ciclo. Una nuova linea
verde, sulla falsariga della politica societaria avviata da Baglini e passata
in mano al nuovo proprietario, Ugolino Ugolini, che cerca di fare del suo
meglio per conciliare le esigenze di bilancio con le abitudini di una piazza
che ha festeggiato due scudetti e una coppa internazionale in tredici anni, e
soprattutto ha visto all’opera tanti campioni con la C maiuscola.
Quell’anno è andato via De Sisti, il numero dieci
è sulle spalle di un altro predestinato, Antognoni. Dei ragazzi del 69
sopravvivono in pochi in viola, sostituiti da una nuova generazione ye-ye. Dopo
Liedholm e Radice, a guidare questa banda di ragazzini di talento, capaci di
repentini alti e di altrettanto improvvisi bassi, a trasformarli in una squadra
che possa di nuovo combattere per il tricolore viene chiamato sulla panchina
viola il mostro più sacro dell’epoca, Nereo Rocco. L’uomo che aveva inventato
il calcio all’italiana, che aveva creato la leggenda del Milan europeo e
mondiale prima di Berlusconi, era una scelta senza mezzi termini: era l’uomo
giusto per tornare a vincere.
Ma il paron era nella fase crepuscolare della sua
carriera. A Firenze sarebbe stata la sua penultima panchina, prima del canto
del cigno due anni dopo al Milan, la sua seconda casa. Nella prima, nella natia
Trieste, si sarebbe spento nel 1979 carico di trofei e di ricordi. Quello dell’anno
trascorso a Firenze, sarebbe stato tutto sommato il peggiore. Quei ragazzini
dai capelli lunghi, dai vestiti sgargianti e dai pantaloni a zampa d’elefante
in perfetto stile dell’epoca, dalle auto di lusso e dalla tendenza ad una dolce
vita che la Firenze di quel periodo tendeva ad assecondare benevolmente, non
erano più fatti per comprendere il suo verbo ed attuarlo in campo.
Non erano più i tempi della Triestina e del Padova.
Rocco si immusoniva in panchina, riuscendo solo a distribuire occhiatacce a
quei figliol prodighi, quando tornavano tardi la sera e quando poi la domenica
si vedevano i risultati altalenanti. Una partita bene e poi due male, mentre la
tifoseria fiorentina, dal palato fino inversamente proporzionale alla pazienza,
cominciava a rumoreggiare sempre più forte.
Si arrivò alla fine del girone di andata con una
classifica che non era quella che la gente si attendeva. Oggi lo si definirebbe
un “vivacchiare”. Quel 26 gennaio 1975 allo Stadio Comunale, come si chiamava
allora essendo Artemio Franchi vivo e vegeto, venne a giocare la Sampdoria. E
venne a vincere su una Fiorentina più indolente del solito, 2-0 con reti di
Prunecchi e dell’ex Maraschi, uno degli eroi di quello scudetto che sembrava
sempre più lontano. La contestazione che covava sotto la cenere finalmente
esplose.
I giocatori rimasero chiusi per quasi due ore
negli spogliatoi, uscendo alla fine accompagnati da qualche dirigente quando
ormai credevano che la rabbia della gente fosse sbollita e che tutti avessero
ripreso la via di casa. Non era così, e se ne accorsero a loro spese due
ragazzotti che ebbero il torto di farsi vedere troppo distesi e sorridenti da
chi invece –ed erano ancora tanti – non aveva voglia di ridere per niente.
Claudio Desolati e Walter Speggiorin videro
subito la mala parata. E’ stato proprio Desolati, che all’epoca aveva vent’anni e contro la Samp aveva giocato
solo un quarto d’ora entrando nel finale al posto di Guerini, a raccontare in
seguito cosa avvenne dopo.
«Io c’entravo poco, ma mi trovai in mezzo a
quella bolgia e corsi come Mennea. Un dirigente stava accompagnando me e
Speggiorin nella sede viola, che era nel viale dei Mille. Quando uscii capii
subito che non era il caso di parlare con chi ci stava aspettando. C’era Carlo,
il cuoco della nostra mensa. Gli dissi: coprimi, che io parto. Lui non capì, mi
chiese che fai, ma ero già scappato. Più di cinquecento metri a tutto fuoco,
anche se avevo uno strappo muscolare alla coscia destra. Ogni tanto mi voltavo
e gli inseguitori perdevano terreno. Avevo la macchina in un garage, la presi e
fuggii a casa. Quando arrivai avevo la febbre a 39 per la paura. Il giorno dopo
però era finito tutto, arrivai allo stadio e nessuno mi offese ».
Quella stagione si concluse con Rocco che si
dimise addirittura prima che la squadra giocasse la finale di Coppa Italia all’Olimpico,
probabilmente stanco e disgustato da un’annata finita ben al di sotto delle
aspettative (ottavo posto in campionato) e da un ambiente rispetto al quale
era rimasto sostanzialmente come un corpo estraneo. Al posto del paron in
panchina il 28 giugno 1975 a
Roma c’era Mario Mazzoni, l’eterno vice di quegli anni. I viola piegarono il
Milan per 3-2, e chissà che in quel successo non ebbe parte decisiva proprio la
corsa su per il Viale dei Mille avvenuta qualche mese prima.
Conclude il suo ricordo Desolati, con una nota di
attualità: «Quando la squadra perde, la gente ha sempre ragione (…) I tifosi
hanno ragione: in campo bisogna correre».
Ogni riferimento al presente è assolutamente
voluto.
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