“Questo governo è nato per fare
le riforme. Se non volete farle, mandatemi a casa”. Rischia di essere questa la
frase di Matteo Renzi che dagli atti parlamentari, comunque vada a finire,
passerà alla storia. Accertata la permanenza di forti sacche di resistenza
all’Italicum dentro la propria maggioranza prima ancora che nelle opposizioni,
il premier consegna queste lapidarie parole a Twitter e manda il Ministro per
le riforme costituzionali Maria Elena Boschi a Montecitorio ad annunciare la
questione di fiducia sugli articoli chiave della riforma del sistema
elettorale. Non sulla votazione finale, lo vieterebbe la Costituzione che
rimanda la materia elettorale alla procedura normale di esame ed approvazione
da parte delle Camere.
Ha un bel darsi da fare la Presidentessa
della Camera dei Deputati Laura Boldrini per affermare questo principio,
sovrastando il tumulto che si scatena non appena il Ministro Boschi, con un
filo di voce, ha dato il fatidico annuncio. La bagarre finisce per investire la
Presidentessa più ancora del Governo, malgrado essa si limiti ad affermare una
verità di fatto, anzi di diritto. Ormai la Boldrini si è guadagnata ampiamente
la palma di prima carica dello Stato per antipatia, e non le viene risparmiato
niente nell’emiciclo in preda a tumulti con pochi precedenti. L’epiteto più
carino che le viene rivolto dai banchi delle opposizioni è “collusa”, mentre
gli oratori da Brunetta a Vendola ai Cinque Stelle pur da diversi punti di
vista sono concordi nello stigmatizzare con parole di fuoco la scelta del Governo,
definendola in sintesi come il “funerale della
democrazia”.
In serata, il premier Renzi
difende la sua scelta, barcamenandosi tra i mass media e l’ormai prediletto
Twitter: "Non c'è cosa più democratica di mettere la fiducia: se passa, il
governo va avanti altrimenti va a casa. Cosa c'è di più democratico di chi
rischia per le proprie idee. E' tempo del coraggio, non di rimanere attaccati
alla poltrona".
Qualcosa è cambiato, per dirla in
termini cinematografici. In un twit risalente a non molto tempo fa, il Grande
Affabulatore scriveva ancora: “Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti
insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo
sempre contestato”. E’ tempo di passare il Rubicone, evidentemente, per un
premier che sa benissimo di avere nella propria maggioranza i più acerrimi
nemici e di dover forse giocarsi tutto – compresa la possibilità di
sbarazzarsene definitivamente – in questa riforma elettorale che gli darebbe un
premio di maggioranza che i suoi predecessori, dal 1945 ad oggi, hanno solo
potuto sognare.
E’ il tempo del coraggio oppure
semplicemente è quello della resa dei conti. Troppe Repubbliche stanno
convivendo in queste due aule, tra Palazzo madama e Montecitorio. La Prima, che
non vuol morire, la Seconda che vorrebbe tornare in auge, la Terza che balbetta
e stenta a compiere i primi passi, rischiando di finire strozzata nella culla.
Ma c’è di più. La materia
elettorale è un qualcosa che va ben al di là della Costituzione, sia detto
senza alcuna irriverenza. E’ un qualcosa che tocca le corde profonde del comune
sentire a proposito della convivenza civile e politica di questa nazione. Che
ha a che fare con i nodi più delicati della sua storia contemporanea. Qualcosa
che non si può pensare di andare a toccare senza risvegliare passioni e
pulsioni profonde che giacevano addormentate nel profondo delle coscienze sia
di chi fa politica che di chi si limita a subirla.
Benito Mussolini e Giacomo Acerbo |
Con la legge elettorale in Italia
si è fatta a volte la storia. E ieri alcuni parlamentari tra le urla ed il
lancio di insulti e di oggetti non hanno mancato di ricordarlo. Il 21 giugno
1923 l’ultima Camera dei Deputati dell’Italia liberale, presieduta da Enrico De
Nicola, approvò con una maggioranza significativa la cosiddetta legge Acerbo,
la riforma del sistema elettorale voluta da Benito Mussolini per assicurare ai
suoi Fasci di Combattimento una maggioranza parlamentare che altrimenti in
quella fase storica difficilmente avrebbero conseguito.
Dopo la Marcia su Roma, il Fascismo
aveva rinfoderato di fatto i propositi di conquista del potere eversivi e aveva
scelto la via governativa, parlamentare. Il primo governo Mussolini aveva una
maggioranza di coalizione risicata, che beneficiava dell’appoggio condizionato
delle varie formazioni liberali e non era più di tanto osteggiata dalle
formazioni popolari e socialiste, ancora in stato confusionale dopo essere
state colte di sorpresa dall’incarico di governo dato da Vittorio Emanuele III
al capo del Fascismo.
Questo stato confusionale non
sarebbe durato a lungo, la base del potere fascista era precaria e Mussolini
volle rafforzarla per via elettorale. Il deputato Giacomo Acerbo gli confezionò
una legge secondo la quale alla lista che otteneva almeno il 25% dei consensi
sarebbero andati i 2/3 dei seggi. E così fu. Mussolini ebbe la sua forza
parlamentare solo momentaneamente messa in crisi poi dal delitto Matteotti e
dalla secessione dell’Aventino. Anzi, fu il parlamento a stragrande maggioranza
fascista ad avallare le cosiddette “leggi fascistissime”, i provvedimenti che
trasformarono lo Stato Liberale in Regime senza necessità di azioni
rivoluzionarie o colpi di stato sostanziali che andassero ad aggiungersi a
quello in parte già compiuto dal monarca Vittorio Emanuele.
La storia successiva è nota, ne
abbiamo commemorato la conclusione pochi giorni fa con la celebrazione di
quella resistenza sanguinosa conclusasi il 25 aprile 1945. L’Italia che aveva
ritrovato libertà e democrazia intese dunque vaccinarsi contro il possibile (e
come si vide in seguito in varie circostanze) non inverosimile ripetersi di
derive autoritarie dotandosi di una Costituzione congegnata in tutti i suoi
aspetti per sfavorire l’insorgere di un potere esecutivo forte.
Per questo motivo i Padri
Costituenti, pur senza dire in proposito nulla di esplicito, espressero una
preferenza per il sistema proporzionale: ad ogni partito tanti seggi per quanti
voti otteneva. Con ciò fu mantenuta piena possibilità di espressione e
rappresentanza a tutte quelle formazioni politiche che erano riemerse dagli
anni bui della dittatura e dall’occupazione militare alleata. Senonché, le
buone intenzioni cozzarono subito contro la governabilità. La Democrazia
Cristiana irrobustita dalla mobilitazione dei moderati contro il fronte Popolare
social comunista (il fatidico 1948, nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin
no) non era comunque un partito che raccoglieva la maggioranza assoluta dei
consensi ed era costretta per governare ad affidarsi ad una coalizione
comprendente liberali, repubblicani e socialdemocratici.
Il leader carismatico dell’epoca,
Alcide De Gasperi, con la sua lungimiranza prefigurava tempi difficili per i
governi italiani a venire, una volta che si fossero spente da tutte le parti le
passioni animate dalla Lotta di Liberazione. Dette perciò incarico al suo
Ministro dell’Interno, Mario Scelba, di elaborare dopo soltanto una legislatura
repubblicana una riforma del sistema elettorale.
Scelba legò il suo nome a diversi
provvedimenti storici, dalla legge sull’ordine pubblico che vietava tra l’altro
la ricostituzione del disciolto Partito Fascista in attuazione delle
disposizioni transitorie della Costituzione, alla legge che sempre in
attuazione della Carta Fondamentale istituiva e regolava il funzionamento delle
Regioni. Ma la legge forse più importante tra quelle da lui propugnate era
destinata a passare alla storia non con il suo nome ma con un epiteto
infamante: Legge Truffa.
Mario Scelba giura per il sesto governo De Gasperi nelle mani del Presidente Einaudi |
Il 31 marzo 1953 la legge Scelba
fu approvata dal Parlamento malgrado l’opposizione social comunista facesse
fuoco e fiamme, lamentando la violazione dello spirito costituente ed il
tentativo neanche tanto surrettizio di ritorno a principi e metodi della
dittatura da poco terminata. La Legge Truffa prevedeva che si desse alla
coalizione che superava il 50% un premio consistente in un ulteriore 15%. Gli
italiani risposero no, fermando la maggioranza di governo ad un incredibile
49,8%. Il fascismo era ancora assai vivido nel ricordo di tutti, ed a torto o a
ragione più della metà degli aventi diritto al voto in questo paese ritenne che
fosse meglio non correre rischi. La legge fu in ogni caso abrogata un anno
dopo, precedendo di poco nella tomba il suo ispiratore, Alcide De Gasperi.
Il resto è storia nota e recente,
ci volle lo shock di mani Pulite per spingere il popolo italiano ad abbandonare
il proporzionale in favore di un sistema maggioritario che finalmente
riportasse l’Italia nel campo dei sistemi governati da esecutivi forti.
Dapprima il Mattarellum, ispirato dall’attuale Presidente della Repubblica, poi
il Porcellum, così chiamato secondo la definizione dello stesso ispiratore il
leghista Roberto Calderoli, disattesero significativamente sia il mandato
popolare espresso nel referendum del 1993 che l’efficacia e l’effettività di
una riforma che rivitalizzasse il sistema democratico rendendolo anche
funzionale alle esigenze del paese.
Italicum è l’ultima creatura, con
il suo premio che elargisce al vincitore che superi almeno il 40% dei consensi
un premio di un ulteriore 15%. E di nuovo le correnti profonde della storia
contemporanea italiana scatenano i propri umori avventandosi contro l’incauto
premier che risveglia bestie feroci dormienti da tempo. O forse, come dice lo
stesso premier affidando i suoi commentari a Twitter, si tratta solo di paura
di perdere la poltrona da parte di una vecchia casta sopravvissuta a troppe
riforme andate a male?
Ai posteri l’ardua sentenza. A
Montecitorio le sentenze cominciano oggi.
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