lunedì 29 febbraio 2016

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Bene bene o male male



Va in scena al Franchi il derby delle coperte corte. Eliminati dall’Europa, Fiorentina e Napoli si ritrovano in Italia per dare un senso ad una stagione tutt’altro che conclusa. Viene in mente la celebre battuta di Marty Feldman in Frankenstein Jr: “Potrebbe andare peggio. Potrebbe piovere”.
Il Napoli si gioca a Firenze buona parte delle sue ciance scudetto. Questo lo rende un cliente difficilissimo per la Banda Sousa. La Juventus è a + 4, lasciarcela vorrebbe dire per gli azzurri di Sarri salutarla di nuovo, e arrivederci all’anno prossimo con lo scudetto cucito sulle solite maglie. Dopo un girone d’andata volato via sulle ali dei 25 gol di Gonzalo Higuain, un secondo posto già sancito a marzo sarebbe un qualcosa che i tifosi campani accetterebbero con qualche difficoltà.
Del resto, la coperta napoletana non ha coperto tutto. Ma almeno da centrocampo in su ha fatto cose egregie. Non vincere per questo Napoli sarebbe un mezzo dramma. E i drammi a Napoli, già capitale della Magna Grecia, diventano spesso e volentieri tragedie. Greche, appunto.
Problemi della società di de Laurentiis. Al limite, di qualche malcapitato che dovesse parcheggiare la macchina nei pressi di Viale dei Mille o Viale Manfredo Fanti, se le cose non si mettessero bene per i simpatici amici partenopei, tra i quali non sempre si annoverano persone compatibili con la nozione di fair play tanto cara da queste parti. Anche se ultimamente con i cori nazisti rivolti ad un radiocronista di origine ebraica anche da queste parti in quanto a inciviltà non abbiamo scherzato.
Restando in ambito squisitamente calcistico, la Fiorentina non batte il Napoli in casa propria dal 2009. Qualcosa vorrà pur dire, per esempio che a parità di discorsi ed essendo partiti entrambi più o meno dalla stessa posizione (in serie C), tra De Laurentiis e Della Valle c’è chi ha fatto qual cosina in più e chi ha fatto qual cosina in meno. C’è chi ha comprato Cavani e chi ha comprato Bonazzoli. C’è chi ha comprato Higuain con la vendita di Cavani e chi non ha saputo nemmeno spiegare che fine hanno fatto i soldi di Jovetic, Llajic, Cuadrado e Salah (risparmiati). C’è chi, carognate a parte, un paio di Coppe Italia almeno a casa le ha portate e chi è a zero titoli, se si esclude la categoria Primavera.
La coperta fiorentina è più corta nelle ultime stagioni. Nella attuale più che mai. I ragazzi di sousa tornano in campo stasera, e sarà la prima occasione per valutare il contraccolpo psicologico delle tre sberle di White Hart Lane. L’obbiettivo del terzo posto è più apparente che reale. La squadra ci crede, la società – ci permettiamo di ipotizzare – un po’ meno. L’attuale Champion’s, per di più disputata dai preliminari, è una bestiaccia divoratrice di soldi. Se non ti attrezzi rischi figuracce già ad agosto, oltre a tracolli finanziarii. Un’altra Europa League, classificandoci dal quatro posto in giù, non sarebbe disprezzabile, se non fosse che questa squadra dalla coperta ancora più corta è stata per due mesi in testa alla classifica. Bastava poco, è la sensazione, per restarci. Bastava fare le cose come il Napoli, non la Juventus.
Sarà la prima occasione per valutare anche il contraccolpo psicologico sulla tifoseria. La Curva Fiesole ha promesso riduzioni significative dell’orario dello stato di agitazione, in considerazione del momento particolare della squadra. Non è una concessione da poco, e non è una concessione fatta allo staff societario, ma solo a tecnico e giocatori. I Della Valle restano latitanti, mentre politica e stampa cittadina si trastullano e si nascondono con l’ennesimo revival della questione dello stadio. Non ci crede più nessuno, ma si riempiono le pagine di giornale ed i verbali dei consigli comunali. Facciano loro, questa è una annata che difficilmente si chiuderà con il “laissez faire” delle scorse stagioni. La memoria del tifoso stavolta promette di essere più lunga.
Peggior momento per questo Fiorentina – Napoli non poteva capitare.

Il giorno che non esiste



Passerà, come tutti i giorni. Probabilmente nell’indifferenza generale di questo mondo sempre più frenetico, che non ha più tempo di curarsi de minimis, come il calendario. Ma a differenza degli altri giorni, non tornerà l’anno prossimo. Tornerà nel 2020. E’ il 29 febbraio, il giorno in più dell’anno bisestile. Qualunque cosa succeda oggi, un giorno particolare già di per sé.
Fin dall’antichità, il calendario che scandisce le nostre vite terrene e lo stesso computo degli anni a fini storici e civili è costruito sul moto degli astri. In particolare dell’astro che ci da la luce e del pianeta – il nostro – che vi ruota attorno. Si, perché per quanto l’uomo moderno abbia dovuto lottare duramente per sostituire il geocentrismo tolemaico con l’eliocentrismo copernicano (complice anche una Chiesa Cattolica che ne aveva fatto una questione di ben altra portata, essendo alla base della stessa filosofia sottesa al suo potere temporale), era noto fin dall’Antichità che la Terra ruota intorno al Sole, e che per farlo completando quella che si chiama “orbita” impiega 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi.
Il mondo antico sugli astri ne sapeva molto più delle epoche successive, almeno fino a quella contemporanea. Sapeva soprattutto che il loro moto e tutto ciò che esso influenzava sul pianeta da noi abitato era il metro fondamentale, l’unità di misura insostituibile per segnare il tempo della vita umana, con l’alternarsi del giorno e della notte, le sue stagioni, le sue annate, le sue nascite, crescite e morti.
L’anno divenne ben presto il tempo amministrativo standard. Il problema era misurarlo con precisione, affinché il calendario astronomico e quello umano restassero sempre al passo. Ci voleva una autorità centrale che imponesse al Mondo Antico una uniformazione delle unità di misura, compresa quella temporale, affinché dovunque i cittadini di quel mondo vivessero la stessa ora, lo stesso giorno, gli stessi mese ed anno.
Questa autorità fu provvidenzialmente fornita, almeno per il mondo conosciuto nel bacino del Mediterraneo e dei tre continenti che vi si affacciavano, dall’Impero Romano. E’ opinione comune degli storici che la grandezza di Roma Antica non sta tanto nell’aver conquistato il mondo (perlomeno ciò che si intendeva per mondo allora) quanto nell’avergli imposto leggi e costumi che in epoca moderna l’uomo non ha potuto fare a meno di riprendere e semmai limitarsi a migliorare nei dettagli, tanto erano efficaci ed accurati nella loro concezione.
Gaio Giulio Cesare
Tra le tante questioni sul tavolino degli organizzatori dell’Impero giaceva proprio quella della misurazione del tempo. Quel 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi non andava bene, non era divisibile per un numero finito di giorni, non permetteva alla macchina imperiale di funzionare con efficienza. Il contadino dell’Hyberia, quello della Britannia, quello della Bitinia avevano da sapere in che data certa iniziare a seminare o a raccogliere (e a pagarci sopra le tasse). Il Senato necessitava di nominare consoli, tribuni e pontefici con esattezza burocratica. Il computo dei giorni basato su 24 ore dall’alba al tramonto alla fine di ogni anno sfasava di circa sei ore. Nell’arco di un secolo, lo sfasamento era di 24 giorni, quasi un mese in più.
Gli anni a Roma si contavano ab Urbe condita, dalla Fondazione. Quando divenne Pontefice Massimo il più grande dei suoi cittadini, Caio Giulio Cesare, ne erano passati circa 710. La vecchia Repubblica che aveva sconfitto Cartagine scricchiolava sotto i colpi delle guerre civili e soprattutto della necessità di amministrare un dominio imperiale in crescita prodigiosa, proprio grazie a Cesare. Il dictator che pose fine al regime repubblicano e favorì l’avvento di quello imperiale assommava nella propria persona diverse cariche. Quella di Pontefice Massimo gli dava il potere di supervisionare tutto ciò che aveva a che fare con la religione. E tutto ciò che ne derivava, dalla coerenza del diritto romano nella sua applicazione fino al funzionamento della macchina amministrativa. E quindi dei suoi calendari, scadenze e ricorrenze.
Mentre gli astronomi studiavano e i burocrati dibattevano, Cesare ebbe l’intuizione geniale (una delle sue tante) di aggiungere al calendario solare vigente, quello elaborato dal greco Sosigene di Alessandria, un giorno di bonus che riavvicinava il tempo terrestre a quello astronomico. Era il 46 a.C., il calendario giuliano che sarebbe durato in vigore più di 1.600 anni, aggiungeva 24 ore sei giorni prima delle Calende di marzo, il giorno che dava inizio al mese che dava inizio all’anno per gli antichi Romani. Questo giorno aggiuntivo era chiamato "bis sexto kalendas Martias", da qui il nome "bisestile".
Con l’avvento dell’Era Cristiana, la suddivisione dell’anno in dodici mesi (con l’aggiunta dei due dedicati a Giulio Cesare ed al suo successore Ottaviano Augusto) e la loro suddivisione in giorni numerati progressivamente, fu stabilito che il giorno extra cadesse il 29 febbraio. L’anno non cominciava più con l’Equinozio di Primavera, ma il Bisesto continuava a cadere a ridosso di esso.
Per quanto geniale, l’idea di Cesare tuttavia aveva una pecca: arrotondava non più per difetto ma per eccesso. Un giorno in più ogni quattro anni infatti era troppo, gli astronomi (che per quanto condizionati dalla dottrina tolemaica quando dovevano fare calcoli seri abbandonavano la Bibbia ed Aristotele e prendevano in mano strumenti più scientifici) avevano computato che dai tempi di Cesare il nostro calendario avesse accumulato un surplus di circa 10 giorni.
Mausoleo di Gregorio XIII a San Pietro in Roma
Si incaricò di porvi rimedio Papa Gregorio XIII. Quando fu eletto Successore di Pietro, il cardinale Ugo Boncompagni di Bologna aveva già alle spalle un successo significativo, la regia dietro le quinte del Concilio di Trento che aveva istituito la cosiddetta Controriforma. Era destinato come Papa a legare il proprio nome ad un evento ancora più importante: l’introduzione del calendario che porta il suo nome. E che grazie alla colonizzazione del mondo – stavolta l’intero orbe terracqueo – da parte delle potenze cattoliche era destinato a diventare il calendario universale.
Gregorio XIII azzerò lo sfasamento dei 10 giorni decretando che il mese di ottobre 1582 ne avesse solo 21, saltando quindi dal giorno 4 al giorno 15. Stabilì inoltre che gli anni bisestili fossero solamente quelli divisibili per quattro, eccetto gli anni secolari che sono bisestili solo se divisibili per 400. Con il che, lo sfasamento astronomico diventava sostanzialmente infinitesimale.
Terminate le Guerre di Religione, anche i paesi protestanti finirono per abbracciare il calendario gregoriano. I paesi di religione ortodossa invece mantengono tutt’oggi quello giuliano, ed è il motivo per cui la Rivoluzione d’Ottobre secondo il nostro calendario ebbe in realtà inizio il 7 novembre. I paesi Islamici mantengono un loro calendario, che prende il via dall’Egira (la fuga di Maometto dalla Mecca che segna l’atto fondativo dell’Islam) e computa da allora annualità di 12 mesi di 30 giorni ciascuno. Fa eccezione la sola Turchia, che grazie alla rivoluzione laica di Kemal Ataturk abbracciò il calendario gregoriano nel 1924.
Per lungo tempo, il 29 febbraio è rimasto per molti popoli il giorno che non esiste, e per affermarsi ha dovuto lottare contro credenze religiose e addirittura superstizioni. “Anno bisesto, anno funesto” è un modo di dire ricorrente a tutt’oggi nelle nostre campagne. Nei paesi anglosassoni e nel Nord Europa addirittura sembra sopravviva una tradizione curiosa, quella (istituita secondo la leggenda da San Patrizio patrono d’Irlanda su richiesta – pare insistente – di Santa Brigida) secondo cui è lecito che in quel giorno siano le donne a chiedere la mano del fidanzato, anziché viceversa.
L’antico calendario nordico sopravvissuto fino al XVIII secolo malgrado la riforma gregoriana non accettava il giorno 29 di febbraio. Essendo quindi un giorno privo di riconoscimento legale, in quella data era consentito contravvenire alle convenzioni, e quindi potevano essere le donne a fare il grande passo solitamente riservato agli uomini. I quali prima di rifiutare dovevano pensarci due volte, essendo in tal caso costretti a pagare una multa. Usanza che sembra essere sopravvissuta in Nord Europa ancora oggi.
Il Leprotto Bisestile festeggia il suo Non-Compleanno con il Cappellaio Matto   
Il 29 febbraio non ci si sposa, essendo ritenuto giorno a tale scopo di cattivo auspicio. Ma si nasce. Secondo il Guinness World Record sarebbero circa 4 milioni le persone nate in questo giorno nel ventesimo secolo. E costrette a festeggiare tre volte su quattro il proprio compleanno il 28 oppure il 1° marzo, per non dover fare come il leprotto bisestile di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, che festeggia il suo Non-Compleanno. C’è addirittura chi ha calcolato la probabilità di nascita nel giorno Bisesto: pare che sia una su 1.461.
Gli anglosassoni chiamano l'anno bisestile "leap year", l’anno del salto. Il motivo non ha niente a che fare con la letteratura fantastica o con le antiche religioni pre-cristiane. Semplicemente, negli anni non bisestili, ogni data cade in genere un giorno dopo rispetto all'anno precedente. Nell'anno bisestile si "salta" di due giorni, perché se ne aggiunge uno che non c'è nei calendari degli anni precedenti. Le date successive al bisesto risultano spostate di due giorni rispetto all'anno prima.

venerdì 26 febbraio 2016

ROAD TO BASEL: Game over



La strada della Fiorentina verso Basilea finisce a Londra. Il Tottenham Hotspurs si prende la rivincita che attendeva da un anno. I viola non erano mai tornati finora a mani vuote dall’Inghilterra. Ma è anche vero che da White Hart Lane le squadre italiane non erano mai uscite con una vittoria. Ed una vittoria, o un pareggio con almeno due gol, era quello che serviva alla Fiorentina per tenere vivo il sogno.
Una delle due tradizioni era destinata ad interrompersi ieri sera. E’ toccato alla Fiorentina, coraggiosa anche se dalle armi spuntate, perfino un po’ sfortunata e addirittura moderatamente maltrattata dall’arbitro. Niente di eclatante, per carità, siamo lontani da Ovrebo, ma insomma quando la palla esce di un metro e l’azione avversaria continua, quando sul gol del raddoppio avversario il tuo difensore becca uno dei tanti pedatoni non sanzionati della serata (che si sommano a quelli dell’andata, con annesso rigore generosissimo agli avversari), qualche rimpianto è lecito averlo. Anche se la Fiorentina alla fine non esce dalla coppa per torti arbitrali, ma bensì per quelli che lei ha inflitto a se stessa.
Different class. In inglese si dice così. Nel tempo intercorso tra l’1-1 dell’anno scorso ed il 3-0 di quest’anno gli Spurs si sono rafforzati, acquistando o promuovendo talenti poco più che ventenni a fianco di campioni collaudati. I viola invece si sono indeboliti, tornando quassù privi di Salah, Joaquin e perfino di quel Mario Gomez che aveva segnato agli inglesi uno dei suoi pochi gol viola, prima della rinascita sul Bosforo.
Da qui a deviare sulle colpe societarie, ci rendiamo conto che il discorso sarebbe come al solito breve. Basta dire, anzi ribadire, che Paulo Sousa si è presentato alla battaglia decisiva con gli uomini più contati che mai. Si può discutere tra l’altro di scelte e di cambi, ma quando gli uomini chiave della zona nevralgica del campo purtroppo sono due signori come Borja Valero e Ilicic che non reggono questi ritmi partita c’è poco da discutere. Bernardeschi poi sarà anche giovane, inesperto e se vogliamo anche un po’ egoista, ma le rare volte che riesce a sfuggire alla marcatura in raddoppio si può anche capire se l’istinto lo spinge a tentare il tiro piuttosto che il passaggio a compagni che avverte lontani e inadeguati anche quando gli stanno a pochi metri.
Quella che scende in campo a White Hart Lane al cospetto di una nutrita ed altrettanto coraggiosa pattuglia di tifosi viola (a proposito, pare che il più giovane dei proprietari della Fiorentina ieri sera abbia trovato un paio d’ore in agenda per recarsi allo stadio, peccato che le telecamere non lo inquadrino mai, poca pubblicità a questo giro) è una Fiorentina spaccata in due, che comunque per 25 minuti tenta di fare il suo bravo pressing alto, per togliere agli inglesi quella che si suppone essere la loro arma migliore: il furibondo forcing iniziale.
Il problema è che questi non sono più gli inglesi di una volta. Intanto hanno il vantaggio del gol segnato a Firenze, e possono aspettare una Fiorentina che invece è costretta a far gioco per segnare il suo di gol in trasferta. Poi hanno delle individualità che rendono tutto di una facilità estrema. O così almeno sembra, quando ripartono dopo aver recuperato palla all’incerto centrocampo viola. Badelj è meno preciso del solito, la lunga sosta per infortunio si fa sentire. Così come a Vecino si fanno sentire i tanti chilometri macinati. Bernardeschi è isolato, Kalinic pure, malgrado stasera si batta bene, ai suoi livelli di inizio campionato. Dietro, i “guerrieri della notte” Gonzalo e Astori fanno gli straordinari, coadiuvati da un Tomovic che le dà e più spesso le prende.
Scongiurato l’arrembaggio inglese sembra lecito sperare in una partita da far virare in direzione viola con pazienza. Fino al 25’, quando un contrasto di Astori favorisce Mason che può involarsi verso Tatarusanu. La palla è di quelle su cui di solito si inciampa, o che sfilano dietro il giocatore appena passato oltre. Mason è fortunato quanto bravo: gran controllo di palla e freddezza a tu per tu con il portiere viola. Il quale potrebbe anche distendere di più l’arto anteriore corrispondente (la sindrome del “braccino” evidentemente è uscita dalle stanze della società ed è arrivata in campo). Bel gol, con il dubbio che fosse parabile.
Per la Fiorentina cambia poco, sempre due gol deve segnare per uscire da Tottenham Court Road con le ossa intere. Il guaio è il solito, per arrivare a tirare in porta ci vuole più che per le consultazioni del presidente della repubblica quando deve formare un nuovo governo. Solo Ilicic è riuscito a tanto, con uno dei suoi tiri a rientrare di sinistro. Poi un colpo di testa di Borja sull’esterno della rete.
Nella ripresa per un quarto d’ora i viola sembrano volercela e potercela ancora fare, anche se gli affacci dalle parti del portiere Vorm sono sempre problematici. Un paio di tiracci di Bernardeschi, un paio di spunti di Kalinic e Borja non andati a buon fine. Il Tottenham aspetta, giocando come il gatto con il topo. Potrebbe essere l’ennesima partita del rimpianto per le occasioni sbagliate o non create. Oppure potrebbe precipitare tutto da un momento all’altro.
Minuto 62. A Chadli, autore del rigore all’andata, è già stato annullato un gol per fuorigioco. Si ripresenta in area viola, mentre da un’altra parte viene steso Tomovic senza tanti complimenti (dovrà poi essere curato a bordo campo per un bel po’). Tatarusanu si fa perdonare la precedente esitazione compiendo un bell’intervento, ma sulla ribattuta c’è Erik Lamela, che vince il duello a distanza delle giovani speranze con Bernardeschi mettendo dentro e chiudendo la partita.
Da quel momento, si gioca per arrivare al 90’. La Fiorentina si scioglie, restando appesa a quel poco di match per la caparbietà di Zarate subentrato a Ilicic (lo sloveno scarica la sua frustrazione sbattendo i guanti contro la panchina) e per gli spunti residui di un Alonso che non vuole arrendersi. Blaszczykowski subentra ad un Borja Valero ectoplasmatico, ma non ha più tempo né modo di incidere sul match.
Dall’altra parte, gli Spurs si vogliono divertire arrotondando il punteggio per assaporare una vendetta ancora più gustosa, e non mollano. Soprattutto Alli, una specie di clone di Ibrahimovic,  si mette in mostra sia per la bravura che per la scorrettezza. Per contenerlo, Gonzalo Rodriguez deve fare gli straordinari. Fintanto che tocca proprio a lui segnare un clamoroso autogol entrandogli davanti in scivolata alla disperata.
Il 3-0 pare una punizione eccessiva per una Fiorentina che merita almeno l’onore delle armi per come si è battuta. Malgrado ciò, l’estrema facilità con cui il Tottenham ha affondato i colpi quando ha voluto legittima in qualche modo il punteggio. “Clinical demolition”, titola stamani il Daily Telegraph. In realtà la Fiorentina è stata demolita da chi non le ha procurato rinforzi al momento giusto, costringendola a tirare la stessa coperta striminzita ai quattro angoli di una stagione impegnativa.
La strada per Basilea finisce qui. La squadra torna da Londra a testa alta, avendo fatto anche in questa circostanza tutto quello che era in suo potere fare. La società ormai la testa non si sa più nemmeno dove l’abbia, e sarebbe bene che in qualche modo la recuperasse, perché la faccia estremamente scura di Paulo Sousa a fine partita non promette niente di buono.
A corredo di una pessima serata ci si mette anche una parte della tifoseria al seguito, che non trova di meglio che compiere una aggressione di stampo antisemita, per fortuna solo verbale, ai danni di un noto commentatore radiofonico di origini ebraiche. A conferma che le Giornate della Memoria servono purtroppo ancora a qualcosa. E che a Firenze quando finiscono i sogni per trasformarli in incubi non ci facciamo mancare mai nulla.

mercoledì 24 febbraio 2016

Un francobollo per l'amico Meyer



E’ il miglior amico dei fiorentini (e non solo) da sempre, da quando fu fondato nel 1891 dal commendator Giovanni Meyer in ricordo della moglie Anna, che aveva espresso nelle sue volontà quella di creare una struttura di ricovero per bambini poveri convalescenti. Si contende il titolo di più antico ospedale pediatrico d’Italia con il Burlo Garofalo di Trieste. Dicono i triestini che il loro ospedale fu fondato ben prima, nel 1856, per volontà espressa dell’Imperatrice d’Austria la celebre Sissi moglie di Francesco Giuseppe, mossa dalle stesse motivazioni filantropiche di Anna Meyer. Ribattono i fiorentini che l’Ospedaletto triestino a stretto rigore fu fondato quando ancora la città giuliana era sotto la giurisdizione dell’Austria-Ungheria, e pertanto l’italianità del record del Meyer è fuori discussione.
Una cosa è certa, con l’andare del tempo l’Ospedalino dei bambini, originariamente situato in Via Luca Giordano e dal 2007 trasferito sulla collina di Careggi accanto all’Ospedale Maggiore, è diventato molto di più che una semplice struttura ospedaliera. E’ un amico, é l’ultima ratio, il soccorso a cui si rivolgono genitori preoccupati della salute dei loro figli da Firenze, dalla Toscana e da molte parti d’Italia quando tutto il resto è venuto meno.
In epoca moderna, il servizio sanitario nazionale fa la settimana corta, e la pediatria non fa eccezione. Ecco che il sabato e la domenica il Meyer diventa non solo la migliore ma anche l’unica struttura di riferimento per chi ha un bambino con un qualsiasi problema di salute, che sia grave o meno. In un qualsiasi giorno festivo, non è infrequente che il pronto soccorso dell’ospedalino registri afflussi da capogiro. Nel 2015 la cifra record degli accessi domenicali è stata di 180 richieste di assistenza in un giorno solo. Un dato che si commenta da solo.
Sono veramente pochi i bambini che a Firenze e dintorni non sono passati prima o poi da una delle strutture del Meyer. Ed è lecito pensare che questa situazione non è destinata a cambiare nell’immediato futuro. La Regione Toscana ha dichiarato da tempo l’Ospedale Meyer tra le sue strutture di eccellenza, quasi un atto dovuto.
Adesso un altro riconoscimento significativo arriva dal Ministero dello Sviluppo Economico, il quale ha emesso venerdì 19 febbraio 2016 un francobollo ordinario appartenente alla serie tematica Le Eccellenze del sapere dedicato all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. L’occasione è data appunto dal 125° anniversario dalla inaugurazione.
Il francobollo, del valore di € 0,95, è stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A., in rotocalcografia, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente, in quattro colori e una tiratura di ottocentomila esemplari. La vignetta riproduce un’opera del pittore e disegnatore Tullio Pericoli raffigurante un bambino che guarda verso l’alto, una reinterpretazione del logo dell’Ospedale Pediatrico Meyer, affiancato alle date 1891-2016.
In occasione dell’emissione è stato realizzato un bollettino illustrativo corredato da un articolo a cura dell’Ospedale Pediatrico Meyer. Lo Sportello Filatelico dell’Ufficio Postale Centrale di Firenze di Via Pellicceria ha inoltre utilizzato, il giorno di emissione, l’annullo speciale realizzato da Filatelia di Poste Italiane. Il francobollo ed i prodotti filatelici correlati sono adesso disponibili presso gli Uffici Postali, gli Sportelli Filatelici del territorio nazionale, gli “Spazio Filatelia” di Roma, Milano, Venezia, Napoli, Trieste, Torino, Genova e sul sito internet www.poste.it.
Ma non è tutto, le iniziative promozionali delel istituzioni non si fermano qui. Come ogni anno, la Fondazione che gestisce l’ospedale pediatrico riproporrà il prossimo 27 febbraio l’iniziativa Il Meyer per amico, giornata promozionale delle proprie strutture organizzata in forma di un vero e proprio open day sulla falsariga di quanto avviene per gli istituti preposti alla istruzione ed alla formazione e che si è resa necessaria per promuovere, o ricreare, un corretto rapporto tra la cittadinanza e quella che come si è detto è una delle sue strutture ospedaliere d’eccellenza.
Si tratta in pratica di far conoscere all’utenza, i bambini e le loro famiglie, quali sono le potenzialità dell’ospedale pediatrico, cosa è lecito chiedere ed aspettarsi dalle sue strutture, quando è giusto rivolgersi ad esse piuttosto che a livelli assistenziali di diverso livello, dai medici di base agli ospedali di zona. Si tratta anche di incentivare quella gara di solidarietà che attraverso gli anni ha stimolato tante personalità illustri e tanti privati cittadini a fare donazioni che hanno consentito alla Fondazione di investire diversi milioni di euro in strutture e apparecchiature di primissimo livello, quali ad esempio una cell factory dove si producono cellule staminali, un trauma center d’eccellenza, la Leniterapia, quella struttura che possiamo definire insieme misericordiosa e di avanzata civiltà, in quanto consente una assistenza mirata ad accompagnare i malati terminali nelle ultime fasi della loro vita limitandone la sofferenza.
Non bisogna mai dimenticare infatti che oggetto dell’attività dell’ospedalino è far fronte alla sofferenza, e l’utenza a cui si rivolge questa attività sono quei bambini nei quali tale sofferenza ci riesce meno accettabile. Ecco quindi che per l’intera giornata del 27, dalle ore 9,00 alle ore 18,00 per un giorno il Meyer si trasformerà in un luogo di festa, con i bambini stessi e le loro famiglie che potranno visitare i reparti e camminare per i corridoi addobbati a festa con palloncini e partecipare a laboratori, giochi, spuntini e tante sorprese, tra le quali la possibilità di incontrare qualcuno dei loro eroi della domenica, i calciatori della Acf Fiorentina che storicamente non hanno mai fatto mancare il loro sostegno e la loro vicinanza all’ospedale dei piccoli.

L'eredità di Bettino



L’anniversario della nascita di Bettino Craxi è destinato a rinfocolare polemiche mai sopite e quasi sempre strumentali alla lotta politico-ideologica conseguente alla fine della Prima Repubblica di cui Craxi fu appunto uno dei più significativi esponenti.
Ci vorrà del tempo e lo scorrere di molta acqua sotto il ponte della Storia prima che la figura di questo uomo politico possa essere inquadrata nella giusta collocazione nella Storia d’Italia. Del resto, non ci siamo ancora messi d’accordo su Cavour e Garibaldi, figuriamoci su persone vissute ed eventi occorsi soltanto pochi anni fa.
E’ opinione comune, per quanto sofferta da molti, che Bettino Craxi sia stato – nel bene e nel male – uno dei pochi statisti degni di questo nome dell’intera storia del nostro paese. Uno dei più importanti, a prescindere dalla politica da  lui perseguita e dai risultati da lui ottenuti. Su questo si può essere ormai tutti d’accordo.
Dove è difficile invece creare un minimo comune denominatore è sul merito della sua azione politica. Lasciando ai posteri l’ardua sentenza su Prima, Seconda e Terza Repubblica e quindi anche su uomini e fatti appartenenti storicamente ad esse, è sul discorso del ruolo internazionale dell’Italia e sul modo in cui i vari governi l’hanno interpretato che mi interessa soffermarmi.
E’ opinione comune anche in questo caso, anche se parimenti sofferta da molti e condivisa con la stessa valenza da quasi nessuno, che da quando Alcide de Gasperi chiese alle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale un po’ di “comprensione” accingendosi a firmare il Trattato di Pace il 10 febbraio 1947, il governo di Bettino Craxi sia stato praticamente l’unico a cercare di recuperare – a volte con gesti anche eclatanti come il famoso NO di Sigonella ai Marines americani – non diciamo un vero e proprio status di indipendenza (il che era impossibile dato il contesto internazionale) ma almeno un principio di recupero di sovranità. Per quanto lo consentiva la Guerra Fredda e l’interdipendenza tra Grandi Potenze e paesi afferenti ai due blocchi.
Vuole la “leggenda nera” elaborata prontamente dalla corrente del revisionismo storico che vede nel secondo dopoguerra un complotto americano per il dominio del mondo (i Protocolli dei Savi di Sion erano passati di moda, e gli Alieni non lo erano ancora diventati), che per quel NO e per altri piccoli e grandi pronunciati prima e dopo a Bettino Craxi sia stato presentato il conto in occasione di Mani Pulite, costringendolo all’espatrio e alla morte in esilio.
Personalmente, al netto di tutte le sciocchezze che rendono e renderanno difficilissimo il lavoro degli storici nel dissipare le nebbie che oscurano la corretta visione di un periodo ancora a noi troppo vicino, credo che in realtà il regolamento di conti che va sotto il nome di Mani Pulite fu una vicenda interamente italiana, resa possibile proprio dal venir meno del ferreo contrapporsi di blocchi in guerra che non ammettevano spazi per gli attori minori. Craxi si era fatto troppi nemici all’interno, e furono quei nemici a presentare quel conto, non certo gli americani che nel 1992 avevano ben altro a cui pensare.
La questione del ruolo internazionale dell’Italia è sempre stata peraltro la più difficile da comprendere per un’opinione pubblica che non ha fatto molti progressi da quando quasi un secolo fa si lamentava al ritmo di chi batteva sulla grancassa della “vittoria mutilata” nella Prima Guerra Mondiale. Nel periodo trascorso dalla sua riunificazione in stato indipendente e sovrano, l’Italia è sempre stata inserita in contesti internazionali che limitavano fortemente la sua azione autonoma. Ciò era inevitabile, non avendo il nostro paese le risorse per affermarsi come grande potenza.
L’unica eccezione fu costituita proprio dal periodo di governo di Benito Mussolini che va sotto il nome di Fascismo. Il Duce fu abile a sfruttare condizioni internazionali particolari, nel ventennio compreso tra la fine dei Grandi Imperi e l’avvento del Nuovo Ordine hitleriano prima e della Guerra Fredda poi. Negli anni 20 e 30 del ventesimo secolo l’Italia godette di spazi di manovra internazionali che non aveva mai avuto prima e non avrebbe avuto poi.
Tutto ciò era destinato ad essere compromesso dall’improvvida entrata nel secondo conflitto mondiale dell’Italia fascista a fianco della Germania nazista. Se Mussolini avesse tenuto a freno la propria ambizione di espansioni territoriali da appagare mediante il supposto gettito di “pochi morti sul tavolo della pace” e si fosse limitato come Francisco Franco a dedicarsi al proprio sviluppo interno, è verosimile che sarebbe morto nel suo letto con la camicia nera e che l’Italia nel dopoguerra, qualunque dopoguerra, avrebbe avuto ben altra collocazione internazionale.
Andò diversamente, e la repubblica democratica ha avuto tanti difetti ma non certo quello di non aver assicurato uno sviluppo sociale ed economico poderoso al nostro popolo, oltre alla sua libertà. Il ruolo internazionale era un’altra faccenda. Anche se si fosse seduta al tavolo della pace godendo di ben altra considerazione rispetto a quella che intristiva Alcide De Gasperi allorché prese la parola a Parigi il 10 febbraio 1947, l’incipiente esplodere delle ostilità tra USA e URSS le avrebbe tolto ogni possibilità. Come le tolse del resto a potenze di ben altra tradizione e di altro status post-bellico come Gran Bretagna e Francia.
Sognare un mondo senza padroni non lo rende di per se stesso possibile. Molta retorica antiamericana del dopoguerra, sia essa stata di matrice comunista o post-fascista, eredita inevitabilmente la stessa retorica del Ventennio e la stessa visione distorta del mondo che portò alla sottovalutazione delle forze e degli interessi in gioco propedeutica alla tragedia della guerra mondiale. Chi scrive peraltro è personalmente convinto che di tutti i “padroni” che la storia poteva imporci in quel frangente gli Stati Uniti d’America furono quello migliore che poteva toccarci. Ad altri, che ne avessero avuta colpa o meno, andò decisamente peggio.
Bettino Craxi e Ronald Reagan
Detto questo, in un’alleanza – per quanto squilibrata più verso la subordinazione che verso la partnership paritaria – ci si può stare in tanti modi. Bettino Craxi tentò di far proprio quello del recupero di un minimo sindacale di orgoglio e dignità nazionali, a prescindere dai contenuti della sua azione. La sua figura, se confrontata con quelle di tanti cosiddetti “statisti” passati ma soprattutto presenti, si staglia decisamente più alta della media, e non di poco.
Un giorno i nostri figli che studieranno storia potranno discutere di questa figura e dei fatti di cui fu protagonista con serenità costruttiva. Nel frattempo, avendo finito di scannarsi ieri l’altro sulla Breccia di Porta Pia e la Spedizione dei Mille ha poco senso sperare che questo anniversario abbia significato se non per qualche addetto ai lavori.

martedì 23 febbraio 2016

Le mille vite di Umberto Eco



Il tempo non è mai galantuomo. Prima o poi si porta via tutto quello che ha reso la nostra vita meritevole d’essere vissuta. Così, è arrivato il momento di scrivere l’ultima recensione del professor Umberto Eco.
Esattamente un anno fa avevo scritto la precedente, relativa alla sua settima prova d’autore. Numero Zero non aveva avuto forse il successo e la risonanza letteraria delle altre sue opere, soprattutto la prima, Il Nome della Rosa. Ma era stata in qualche modo un’opera conclusiva, paradigmatica. Il professor Eco aveva chiamato a raccolta il proprio talento narrativo e divulgativo per operare una sintesi della sua poetica, elaborata in oltre mezzo secolo di produzione sia saggistica che narrativa. Aveva abbandonato le favole letterarie, la letteratura della e sulla letteratura, “libri che parlano di altri libri” per usare una sua citazione, per approdare finalmente all’attualità, alla cronaca. Le vicende dell’Italia repubblicana fino a Mani Pulite avevano fatto da sfondo alla sua ultima (ma allora non lo sapevamo) Lectio Magistralis su comunicazione e informazione.
Non sapevamo che era l’ultima uscita in pubblico del professore di Alessandria. Umberto Eco aveva 84 anni, e da oltre 60 scriveva libri e ci spiegava come leggerli, i suoi e quelli di tutti gli altri. Con lui era giunta a sistema definitivo la “semiotica”, la scienza che studia i segni ed il modo in cui questi acquistano un significato. La base della comunicazione e della stessa letteratura.
Dagli esordi tomistici (diceva sempre che San Tommaso lo aveva “curato dalla fede”, rendendolo ateo o quantomeno agnostico) fino alla saggistica degli anni sessanta e settanta, il professore era diventato il principale studioso italiano e uno dei principali al mondo di quel fenomeno che conosciamo generalmente sotto il nome di “cultura”.
Diventato famoso per gli addetti ai lavori con il “Gruppo 63”, il raggruppamento di intellettuali che aveva intrapreso – a soli dieci anni dalla sua nascita – l’opera di svecchiamento di quello che era diventato il principale veicolo culturale, la televisione, era diventato conosciuto al grande pubblico con saggi epocali come Diario Minimo, Opera Aperta, Apocalittici e integrati.
Umberto Eco era un  intellettuale  caposcuola, che aveva aperto la porta della cultura italiana con la C maiuscola alla comprensione della sua versione nazional – popolare. Da cui fondamentalmente rifuggeva, per una sorta di snobismo connaturato a tutti gli intellettuali nostrani da che mondo è mondo, Italia è Italia, e cultura è cultura. Ma di cui riconosceva la necessità di essere studiata a fondo. Perché bene o male la nostra storia aveva conosciuto l’avvento della società di massa e lui della società, di ogni società, era studioso a partire dalla sua struttura di base, costituita dalle forme di comunicazione.
Mike Bongiorno e Edy Campagnoli
Il suo celebre saggio “Fenomenologia di Mike Bongiorno” aveva fatto piangere – dicono le cronache – lo stesso presentatore televisivo, che si era sentito a torto o a ragione trattato come fenomeno da baraccone e ridimensionato a livello di guitto del tubo catodico. In realtà, con quel saggio il professor Eco aveva preso due piccioni con una fava, cogliendo tra i primi l’essenza della nuova arte del ventesimo secolo, quella appunto “televisiva”, e la figura scenica, la dramatis personae di uno dei suoi interpreti principali e fondanti, il buon Mike che si apprestava ad accompagnare nelle loro serate domestiche ben due generazioni di italiani, quelle cresciute se non addirittura nate con il boom economico, sociale e culturale.
Eco era un genio apripista, non si fermava davanti a nulla, se lo riteneva meritevole della sua e della nostra attenzione. L’agente 007 era un fenomeno di massa, ed allora ecco il “Caso James Bond”. La padronanza dell’italiano era un problema notevole lasciato in eredità dall’alfabetizzatore maestro Alberto Manzi alle varie riforme scolastiche post-gentiliane, ed allora ecco “Come si fa una tesi di laurea”, che a partire dalla mia generazione è diventato un passaggio obbligato per tutti coloro di noi che ambivano a terminare gli studi scrivendo qualcosa di senso compiuto. L’Italia era un paese che scriveva male e leggeva anche peggio? Ecco Opera Aperta, e la sua definizione del “ruolo del lettore”. L’Italia era un paese che la televisione stava cambiando irrevocabilmente (e ancor più si apprestava a fare nei decenni successivi, dagli anni settanta in poi)? Ecco Apocalittici e Integrati.
Sean Connery, il primo 007 e futuro Guglielmo da Baskerville
Una vita spesa a definire cos’è letteratura e come fruirne. Per tutti, dal laureato all’agricoltore, dal dottore all’operaio. Eco disprezzava gli imbecilli (coloro ai quali internet – avrebbe detto in seguito – stava offrendo l’arma finale, quei fatali quindici minuti di visibilità e notorietà di cui stava parlando nello stesso periodo Andy Warhol) ma non gli ignoranti, ai quali bastava spiegare, per la prima volta, le cose con chiarezza. La differenza tra arte e ciarpame.
"Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito.. perché la lettura è un’immortalità all’indietro".
Di quella immortalità ad un certo punto il professor Eco si stancò di essere analista e osservatore, e desiderò diventarne parte. Ad un certo punto negli anni settanta gli fu chiesto di fare da curatore di una collana di gialli. Lui rispose che se mai avesse avuto a che fare con quel genere letterario lo avrebbe fatto da “autore”, ambientando la sua opera nel medioevo delle abbazie, dei grandi movimenti religiosi, dei monaci e delle eresie.
Sean Connery e Christian Slater
Dopo tanti libri letti e commentati, era arrivato il momento di scriverne uno suo proprio. Nacque così, quasi come divertissement, Il nome della Rosa. In esso, come un torrente in piena, si riversò tutta la erudizione del professore e tutta la sapiente commistione di generi di cui era capace. Guglielmo da Baskerville è uno Sherlock Holmes trasportato ai tempi della riforma cluniacense, della riscoperta della Poetica di Aristotele e dell’insorgere dell’Inquisizione. Baskerville è il nome della più celebre ambientazione dei romanzi di Arthur Conan Doyle, quello della caccia al Mastino. Il monaco a cui fa da assistente non il dottor Watson ma bensì il novizio Adso da Melk è un precursore del metodo induttivo-deduttivo, che sarà alla base della Scienza moderna una volta liberata dalle costrizioni della Fede.
Attraverso gli occhi del novizio, e secondo una tecnica collaudata fin dal feuilleton ottocentesco (si parte dal consueto, per noi, espediente del manoscritto ritrovato in circostanze eccezionali: dal baule contenente l’eredità alla bottiglia dispersa in mare), si dispiega per la prima volta il talento narrativo di Eco capace di alternare la suspence di un giallista di razza al genio figurativo del grande critico d’arte che ci guida in un viaggio visivo attraverso i monumenti e le scene di vita di un’epoca lontana, tragica e suggestiva, l’Età di Mezzo.
Alla fine, dell’abbazia divorata dalle fiamme scatenate dal monaco Jorge, custode dell’ortodossia cattolica, non rimane niente, così come delle nostre illusioni – questo sembra essere il messaggio dell’autore – di cogliere l’essenza delle cose attraverso la conoscenza, quando invece a malapena ne possediamo dei nomi che altro non sono che articolazioni del linguaggio di cui abbiamo perso il senso originario. Stat Rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, è questo il significato dei versi che chiudono la narrazione di Adso da Melk / Umberto Eco e danno il titolo al libro.
Il professore, in realtà, si divertiva a giocare, con filosofia, arte e letteratura in quanto complessi di simboli attraverso cui si affanna la cultura da sempre a cercare di dare un senso alla realtà. Non esiste quell’assoluto a cui tendeva l’uomo medieoevale, ma esistono tutta una serie di rappresentazioni della realtà stessa diverse tra loro e numerose e varie quanto gli esseri umani. Il cosiddetto relativismo di una cultura sempre più aperta, liberata dalle costrizioni di ogni genere.
Nessuno dei suoi libri successivi riuscì a bissare il successo del Nome della Rosa, che era stato probabilmente il prodotto di uno stato di grazia irripetibile. Ma tutti i romanzi successivi di Umberto Eco ripetono lo stesso schema: è una “mimesis biou”, una rappresentazione della vita, della realtà, secondo la percezione di un dato momento storico e secondo la deformazione naturale e/o interessata che gli uomini ne compiono. Tutti i suoi libri successivi vertono in sostanza su questo argomento. "Quando gli uomini smettono di credere in Dio, non è che non credono più a niente. Cominciano a credere ad ogni cosa".
Il Pendolo di Foucalut gioca – ma si tratta di un gioco serissimo e documentatissimo – con la leggenda nera dei Templari e tutte le leggende di vario segno e colore che sono sorte a proposito di Cabale, organizzazioni segrete che attraversano la storia dell’uomo e complotti vari. Erano gli anni del resto in cui uscivano libri come Il santo Graal di Baigent, Lincoln e Leigh, che scatenò per primo la caccia al mistero, all’esoterico, alla discendenza del divino tra noi. Il libro comincia e finisce al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, dove viene conservato l’originale pendolo ideato dal fisico Leòn Foucault per misurare la rotazione della Terra. Dan Brown farà iniziare più tardi il suo Codice Da Vinci nei saloni del Louvre, ma si prenderà molto più sul serio di quanto Umberto Eco mostri di voler fare, pur trattando temi serissimi o almeno vissuti come tali da una porzione sempre crescente di umanità.
L’isola del giorno prima è un altro esperimento. Riportare in prosa del ventesimo secolo la narrazione dei grandi resoconti di viaggio e dei romanzi d’avventura del Sei-Settecento a partire da Daniel De Foe. L’idea della nave che naufraga nell’Oceano Pacifico a cavallo del punto fisso, l’Antimeridiano di Greenvich, è affascinante. Alzi la mano chi non è preda della suggestione ogni notte di Capodanno al pensiero che mentre da noi scocca la mezzanotte al largo delle coste australiane essa è già passata da dodici ore, e gli indigeni di quei luoghi vivono già il nuovo anno. La Daphne, il relitto su cui si muove il protagonista, giace per metà nel giorno prima e per metà in quello successivo. Da lì parte un excursus di Eco attraverso tutta la filosofia e la proto-scienza entro cui si dibatteva la mente dell’uomo appena liberata dall’aristotelismo e dalla concezione del mondo tolemaica.
Con Baudolino si ritorna nel Medioevo. Non quello delle abbazie ma quello di Federico Barbarossa, della lotta tra Papato e Impero (sullo sfondo della quale Eco accenna anche alla fondazione della sua città natale, Alessandria), del richiamo dell’Oriente scatenato dalle Crociate. Il favoloso regno del Prete Gianni nell’immaginario medioevale racchiudeva in sé tutto ciò che esisteva ad est e su cui fino alla riconquista del Santo Sepolcro l’uomo europeo aveva potuto solo cercare di fantasticare. La tecnica di cominciare il manoscritto in volgare medioevale e poi di proseguirlo in italiano moderno contiene suggestioni manzoniane.
La misteriosa fiamma della Regina Loana nasce come pretesto per un ritorno all’infanzia. Quella dei coetanei dello stesso Eco che da ragazzini leggevano i primi fumetti su carta stampata, da Cino e Franco (il titolo del libro è quello di una loro avventura) a Flash Gordon a Mandrake. Il tema del rapporto tra età infantile ed età adulta viene sviluppato attraverso una cavalcata negli archetipi della letteratura avventurosa a fumetti, nonché spunti e citazioni di Jack London, Henry Rider Haggard e addirittura di Socrate. Il protagonista perde la memoria, poi la ritrova. Ma, "nello stesso istante in cui seppe, cessò di sapere". Si cresce, si acquistano cose preziose, se ne perdono altre ancora più preziose.
Il Cimitero di Praga gioca con la storia dell’Ottocento, ma soprattutto con le sue leggende nere. Dai retroscena del Risorgimento italiano alla letteratura (in gran parte ovviamente inventata) a proposito del complotto ebraico per dominare il mondo, si corre nel tempo a fianco di Giuseppe Garibaldi, Alexandre Dumas, Eugene Sue, Victor Hugo, la Cabala e la leggenda del Golem (nata appunto a Praga nel XVI secolo) fino ai Protocolli dei Savi di Sion. Alla fine il libro sembra terminare suggerendoci un interrogativo: siamo sicuri che la nostra storia sia proprio andata come ce l’hanno raccontata i testi ufficiali?
La stessa domanda che ci poniamo al termine di Numero Zero, ma qui l’ambientazione è collocata ai giorni nostri e la tesi ancora più suggestiva proprio perché investe e stravolge la nostra stessa vita. E se Mussolini non fosse morto a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945 e scampato all’esecuzione da parte dei partigiani fosse riuscito a mettersi in salvo? E dal suo rifugio avesse orchestrato tutte le trame nere (e le controtrame di altro colore) del dopoguerra?
Tesi e antitesi. Domande che non hanno e forse non possono avere risposta. Ma non era la risposta ad interessare il professor Umberto Eco, quanto la stessa domanda. Il fatto stesso di porsela, magari tra il serio ed il faceto. La realtà e la sua rappresentazione possono mai coincidere? Se così fosse avrebbe ragione di esistere una semiotica, una scienza dei simboli e dei significati?
Esista o meno quel mondo superiore, quella vita dopo la vita a cui Umberto Eco aveva smesso di credere per colpa di San Tommaso, c’è da pensare che adesso il professore ne sappia – se possibile – molto di più. A noi restano i suoi libri, e tutte le vite che ci ha regalato solo per il fatto di averli letti.

Mario Vargas Llosa, Umberto Eco, Salman Rushdie


lunedì 22 febbraio 2016

DIARIO VIOLA: Dove risorgono gli eroi



Secondo la mitologia greca, Atalanta era la figlia del re dell’Arcadia, Iasio. A quel tempo, per niente facile da viverci, spesso e volentieri i genitori disdegnavano le figlie femmine e addirittura talvolta le abbandonavano, un po’ come usava in Cina fino a non molto tempo fa. La bambina subì questa sorte, ma siccome era cara a Diana Artemide dea della caccia si salvò. La dea infatti inviò un’orsa che allevò la bambina fino all’adolescenza. Atalanta crebbe diventando una prode cacciatrice e guerriera, che spesso e volentieri “dava la paga” ai maschi che si cimentavano con lei.
Narra il mito che Atalanta, per accontentare quel padre che - come succede oggi con i ragazzini che promettono bene a giocare a calcio - non solo l’aveva ripresa in casa ma ne era diventato il principale e sfegatato tifoso e che nello stesso tempo la voleva vedere “sistemata”, aveva promesso di cedere le proprie grazie solo a chi l'avesse battuta in una gara di corsa. Il vincitore l’avrebbe avuta, lo sconfitto sarebbe stato ucciso.
Bergamo è stata spesso un crocevia del destino per la Fiorentina, che qui ha colto in passato successi importanti e storici. Ne citiamo due soli. Il primo è il 7-1 con cui il 2 febbraio 1964 fece registrare il proprio record di gol in una partita in trasferta, record tutt’ora imbattuto. Quel giorno Kurt Hamrin segnò ben cinque reti e scrisse un capitolo significativo di quella che sarebbe diventata la sua leggenda. Il secondo è lo 0-2 con cui conquistò la sua quinta Coppa Italia nel 1996, reti di Amoruso e dell’erede conclamato di Hamrin, Omar Gabriel Batistuta. Ad aspettare la squadra alle tre di notte allo stadio c’erano tra le trenta e le quarantamila persone. Amarcord.
Il destino è in agguato a Bergamo anche quest’anno. Dopo tre anni di vittorie la squadra viola torna allo stadio Azzurri d’Italia consapevole di avere a disposizione un risultato solo: quello che allunga la striscia di successi iniziata dalla rete di Larrondo in versione Batigol e chiusa dalla prodezza di Kurtic (mai più ripetuta dallo sloveno che quest’anno milita dalla parte opposta, quella orobica).
Narra ancora il mito che Atalanta, finalmente sposatasi, era diventata madre di un bambino di nome Partenopeo. Gli Dei dell’Olimpo avevano dunque previsto che alla vigilia delle due settimane che decideranno il destino di questa stagione viola i nostri eroi avrebbero dovuto affrontare la madre prima del figlio. Tottenham, Napoli e Roma, tre partite da vincere per non morire. Ma prima di tutto questa, da giocare su un campo che malgrado il nome altisonante dello stadio assomiglia più ai pantani e alle risaie su cui giocavamo da ragazzini che a un terreno di gioco omologabile per la serie A. E contro giocatori che quando possono fanno volentieri gli ammazza-grandi. In tutti i sensi, anche quello fisico, a giudicare dalle pedate che abbiamo visto volare anche ieri.
In ogni mito che si rispetti ci vuole l’eroe che guida la sua nave di eroi contro mille avversità. Paulo Sousa forse non resterà nella mitologia viola come una figura pari a quella di Ulisse dell’Odissea o di Giasone degli Argonauti, ma di certo sta facendo di tutto per assicurare un futuro a questa cooperativa di Lasciati a se stessi che è diventata la Fiorentina dopo che i suoi proprietari, come Achille nell’Iliade, ritenendosi gravemente offesi si sono ritirati nella loro tenda e non ne sono più usciti.
La squadra che mette in campo è priva dello squalificato Zarate, diventato furioso come l’Orlando dell’Ariosto alla fine della partita con l’Inter e duramente (forse troppo) punito dagli Dei del calcio. Ed è anche figlia della necessità di turnover e contro-turnover imposta dal dover giocare giovedi l’Europa League, con la coperta ancora più corta che nel girone d’andata a difendere i viola dal freddo londinese.
Tornano in campo Tello, Mati Fernandez e Babacar, in panchina Borja Valero. Il resto, a parte la staffetta Tomovic-Roncaglia che francamente eccita assai meno la fantasia di quella Rivera-Mazzola a Mexico 70, rientra nella norma. Il centravanti senegalese si suppone più adatto alle sportellate a cui dovrà fare nel mezzo della ruvida difesa atalantina rispetto a quello croato. Il Borja visto giovedi ha bisogno peraltro di centellinare le energie per non finire sotto una tenda ad ossigeno. Torna Badelj in mezzo al campo, resta Bernardeschi a fare quello che sa fare: calcio totale.
Si parte alla grande. Pasqual cerca di festeggiare la sua trecentesima presenza in maglia viola (dopo Beppe Chiappella e Sergio Cervato – eroi del primo scudetto – era stato Giancarlo Antognoni l’ultimo a tagliare quel traguardo, trentadue anni fa) con una punizione delle sue, che Sportiello vola a deviare dal sette. Risponde Dramé con una testata che trova Tatarusanu in traiettoria, nella prima di una serie di occasioni in cui i padroni di casa sorvolano l’intera difesa viola con cross pericolosissimi. Dramé becca poco dopo anche un cartellino giallo per aver steso un Cristian Tello che oggi conferma i suoi vistosi progressi partita dopo partita. Se si può fare un appunto al giovane blaugrana – viola è quello di non insistere proprio sul suo marcatore, cercando il fallo che trasformerebbe il giallo in rosso. Ma questo si chiama mestiere, viene col tempo e l’esperienza e per Cristian ci sarà tempo.
Mati: 1-0
I viola si battono bene, ma in mezzo al campo l’armata longobarda dei nerazzurri orobici fa paura, letteralmente. Non c’è contrasto che non si concluda sul polpaccio o sulla caviglia di un viola. Diversi interventi fanno temere il peggio, soprattutto per Bernardeschi che coraggiosamente cerca di fare calcio, il suo calcio, su un terreno che sembra una concimaia e in mezzo ai colpi di mazza ferrata degli avversari.
L’arbitro Celi cerca di tenere il match su binari di correttezza, ma insomma il gioco ne risente e il primo tempo scivola via senza che nessuno da una parte o dall’altra arrivi anche vicino ad un’idea di tiro in porta. Nella ripresa si pone per Sousa l’amletico dilemma: continuare così e vanificare i doni della sorte che offrono alla Fiorentina l’occasione di tenere la Roma e l’Inter a distanza salvando incolumità fisica ed energie per giovedi e il futuro di coppa, o cambiare qualcosa e forzare la mano al Fato, che ancora oggi non ha mostrato da che parte si schiera, se da quella della madre di Partenopeo o da quella degli Argonauti viola?
Si cambia, dopo aver intravisto un Mati Fernandez voglioso di mettersi in mostra e temerario nel provare a saltare marcatori nel cuore dell’area atalantina. Il prode Matias segnò proprio qui due anni fa il suo primo gol in viola (e uno degli ultimi, prima di risprofondare in un confusionario anonimato). Hai visto mai che le Sirene oggi non cantino anche per lui?
Mentre l’allenatore di casa Edoardo Reja provoca la Fiorentina mettendo in campo il suo fresco ex Diamanti, Paulo Sousa risponde: fuori Babacar, che oltre alle sportellate oggi ha fatto poco o nulla, per Kalinic, e fuori Bernardeschi, che ha avuto più calcioni (uno in particolare è sembrato come la freccia fatale che trafisse Achille) che occasioni da rete, per Borja Valero.
Poco dopo, gli Dei riuniti a banchetto sull’Olimpo decidono. Il mito viola deve continuare, almeno per ora. Tocca all’eroe che si era perso nei lunghi anni di guerra trascorsi sotto Montella prima e Sousa poi ritrovarsi con il colpo che salva la giornata e fa vincere la battaglia. Il colpo di testa di Matias Fernandez sembra proprio pilotato dal Fato, scavalcando Sportiello e andando ad insaccarsi in rete dopo aver carambolato sul palo.
1-0, basterebbe ed avanzerebbe per finire il turno di campionato ancora terzi, a prescindere da cosa succede nei posticipi. Ma la difesa viola quest’anno consiglia di incrementare il punteggio, a scanso di equivoci e dispiaceri. Gonzalo e Astori sono due guerrieri omerici che combattono su ogni palla respingendo ogni assalto dei lanzichenecchi che si buttano a testa bassa. Ma dalle parti di Roncaglia e del vecchio capitano Pasqual si balla, e dalle fasce qualche pericolo arriva.
Tello: 2-0
Ci vuole un’altra impresa per arrivare in fondo con la vittoria. E’ stato Tello a crossare per Mati in occasione del primo gol. Adesso tocca a Mati rendere perfetta la giornata sua e della sua squadra ricambiando la cortesia. L’assist al giovane spagnolo che scatta sul filo del fuorigioco è perfetto. Cristian arriva davanti a Sportiello e prova il tocco sotto. L’emozione o il debito di ossigeno strozzano il suo tiro, ma sulla ribattuta stavolta la gamba non trema e il pallone infila la porta. Il giovane Tello è grato agli Dei. I viola possono abbracciarsi.
Finita? Neanche per sogno. Gli eroi torneranno vittoriosi, ma come Odisseo dovranno affrontare ancora peripezie. Passano tre minuti e su corner che sorvola l’intera difesa viola e poi vi carambola in mezzo il giovane barbaro Conti ha tempo di girarsi e mettere dentro da un metro. E ti pareva? Mancano sette minuti più recupero, e son lunghi. Sotto a chi tocca, si faccia avanti qualche altro eroe redivivo per il colpo di grazia alla cacciatrice.
Kalinic: 3-0
E’ da un po’ che il Borja ritrovato mostra di aver facilità ad andar via sulla sinistra. Quando partono in due, lui e Kalinic, contro due atalantini sembrano davvero guidati da una mano divina. Borja salta il suo marcatore, al centro Kalinic gli fa un gesto: mettimela qui. Lo spagnolo esegue, l’eroe croato risorge chiudendo due mesi di magra con una deviazione sotto porta di quelle che erano le sue. 3-1, stavolta è finita. Anzi no, perché c’è Pinilla che deve segnare il suo gol annuale alla Fiorentina, approfittando del solito sorvolo a bassa quota della difesa viola. Ma ormai siamo ai minuti di recupero, e tutto ciò che succede prima che Celi fischi la fine e questo poema omerico venga consegnato ai cantori è l’espulsione del giovane barbaro Conti per l’ennesimo fallaccio su Kalinic.
Pasqual a quota 300
La cacciatrice è vinta e sottomessa. La Cooperativa viola continua la sua corsa in questa stagione epica fatta di dure battaglie e quasi sempre di eroiche vittorie, sballottata tra il favore degli Dei e lo sdegno dei suoi Proprietari che come Agamennone sotto le mura di Troia intralciano più che propiziare il suo trionfo. Adesso c’è Albione, e il destino di coppa. Questa Fiorentina se la gioca, comunque vada a finire. Poi c’è Partenopeo, che vorrà vendicare la madre e insieme inseguire il suo proprio destino. Quello stesso che fino a poco tempo fa inseguiva anche la Fiorentina.
Gli Dei del calcio sono volubili. Stiamo a vedere.