Il tempo non è mai galantuomo.
Prima o poi si porta via tutto quello che ha reso la nostra vita meritevole
d’essere vissuta. Così, è arrivato il momento di scrivere l’ultima recensione
del professor Umberto Eco.
Esattamente un anno fa avevo
scritto la precedente, relativa alla sua settima prova d’autore. Numero Zero non aveva avuto forse il
successo e la risonanza letteraria delle altre sue opere, soprattutto la prima,
Il Nome della Rosa. Ma era stata in
qualche modo un’opera conclusiva, paradigmatica. Il professor Eco aveva chiamato
a raccolta il proprio talento narrativo e divulgativo per operare una sintesi
della sua poetica, elaborata in oltre mezzo secolo di produzione sia saggistica
che narrativa. Aveva abbandonato le favole
letterarie, la letteratura della e sulla letteratura, “libri che parlano di
altri libri” per usare una sua citazione, per approdare finalmente
all’attualità, alla cronaca. Le vicende dell’Italia repubblicana fino a Mani
Pulite avevano fatto da sfondo alla sua ultima (ma allora non lo sapevamo)
Lectio Magistralis su comunicazione e informazione.
Non sapevamo che era l’ultima
uscita in pubblico del professore di Alessandria. Umberto Eco aveva 84 anni, e
da oltre 60 scriveva libri e ci spiegava come leggerli, i suoi e quelli di tutti
gli altri. Con lui era giunta a sistema definitivo la “semiotica”, la scienza
che studia i segni ed il modo in cui questi acquistano un significato. La base
della comunicazione e della stessa letteratura.
Dagli esordi tomistici (diceva
sempre che San Tommaso lo aveva “curato dalla fede”, rendendolo ateo o
quantomeno agnostico) fino alla saggistica degli anni sessanta e settanta, il
professore era diventato il principale studioso italiano e uno dei principali
al mondo di quel fenomeno che conosciamo generalmente sotto il nome di
“cultura”.
Diventato famoso per gli addetti
ai lavori con il “Gruppo 63”,
il raggruppamento di intellettuali che aveva intrapreso – a soli dieci anni
dalla sua nascita – l’opera di svecchiamento di quello che era diventato il
principale veicolo culturale, la televisione, era diventato conosciuto al
grande pubblico con saggi epocali come Diario Minimo, Opera Aperta,
Apocalittici e integrati.
Umberto Eco era un intellettuale
caposcuola, che aveva aperto la porta della cultura italiana con la C
maiuscola alla comprensione della sua versione nazional – popolare. Da cui
fondamentalmente rifuggeva, per una sorta di snobismo connaturato a tutti gli
intellettuali nostrani da che mondo è mondo, Italia è Italia, e cultura è
cultura. Ma di cui riconosceva la necessità di essere studiata a fondo. Perché
bene o male la nostra storia aveva conosciuto l’avvento della società di massa
e lui della società, di ogni società, era studioso a partire dalla sua
struttura di base, costituita dalle forme di comunicazione.
Mike Bongiorno e Edy Campagnoli |
Il suo celebre saggio “Fenomenologia
di Mike Bongiorno” aveva fatto piangere – dicono le cronache – lo stesso
presentatore televisivo, che si era sentito a torto o a ragione trattato come
fenomeno da baraccone e ridimensionato a livello di guitto del tubo catodico.
In realtà, con quel saggio il professor Eco aveva preso due piccioni con una
fava, cogliendo tra i primi l’essenza della nuova arte del ventesimo secolo,
quella appunto “televisiva”, e la figura scenica, la dramatis personae di uno
dei suoi interpreti principali e fondanti, il buon Mike che si apprestava ad
accompagnare nelle loro serate domestiche ben due generazioni di italiani,
quelle cresciute se non addirittura nate con il boom economico, sociale e
culturale.
Eco era un genio apripista, non
si fermava davanti a nulla, se lo riteneva meritevole della sua e della nostra
attenzione. L’agente 007 era un fenomeno di massa, ed allora ecco il “Caso James Bond”. La padronanza
dell’italiano era un problema notevole lasciato in eredità dall’alfabetizzatore
maestro Alberto Manzi alle varie riforme scolastiche post-gentiliane, ed allora
ecco “Come si fa una tesi di laurea”,
che a partire dalla mia generazione è diventato un passaggio obbligato per
tutti coloro di noi che ambivano a terminare gli studi scrivendo qualcosa di
senso compiuto. L’Italia era un paese che scriveva male e leggeva anche peggio?
Ecco Opera Aperta, e la sua
definizione del “ruolo del lettore”. L’Italia era un paese che la televisione
stava cambiando irrevocabilmente (e ancor più si apprestava a fare nei decenni
successivi, dagli anni settanta in poi)? Ecco Apocalittici e Integrati.
Sean Connery, il primo 007 e futuro Guglielmo da Baskerville |
Una vita spesa a definire cos’è
letteratura e come fruirne. Per tutti, dal laureato all’agricoltore, dal
dottore all’operaio. Eco disprezzava gli imbecilli (coloro ai quali internet – avrebbe
detto in seguito – stava offrendo l’arma finale, quei fatali quindici minuti
di visibilità e notorietà di cui stava parlando nello stesso periodo Andy
Warhol) ma non gli ignoranti, ai quali bastava spiegare, per la prima volta, le
cose con chiarezza. La differenza tra arte e ciarpame.
"Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi
legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo
sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito.. perché la lettura è
un’immortalità all’indietro".
Di quella immortalità ad un certo
punto il professor Eco si stancò di essere analista e osservatore, e desiderò diventarne
parte. Ad un certo punto negli anni settanta gli fu chiesto di fare da curatore
di una collana di gialli. Lui rispose che se mai avesse avuto a che fare con
quel genere letterario lo avrebbe fatto da “autore”, ambientando la sua opera
nel medioevo delle abbazie, dei grandi movimenti religiosi, dei monaci e delle
eresie.
Sean Connery e Christian Slater |
Dopo tanti libri letti e
commentati, era arrivato il momento di scriverne uno suo proprio. Nacque così,
quasi come divertissement, Il nome della
Rosa. In esso, come un torrente in piena, si riversò tutta la erudizione
del professore e tutta la sapiente commistione di generi di cui era capace.
Guglielmo da Baskerville è uno Sherlock Holmes trasportato ai tempi della
riforma cluniacense, della riscoperta della Poetica di Aristotele e
dell’insorgere dell’Inquisizione. Baskerville è il nome della più celebre
ambientazione dei romanzi di Arthur Conan Doyle, quello della caccia al
Mastino. Il monaco a cui fa da assistente non il dottor Watson ma bensì il
novizio Adso da Melk è un precursore del metodo induttivo-deduttivo, che sarà
alla base della Scienza moderna una volta liberata dalle costrizioni della
Fede.
Attraverso gli occhi del novizio,
e secondo una tecnica collaudata fin dal feuilleton
ottocentesco (si parte dal consueto, per noi, espediente del manoscritto
ritrovato in circostanze eccezionali: dal baule contenente l’eredità alla
bottiglia dispersa in mare), si dispiega per la prima volta il talento narrativo
di Eco capace di alternare la suspence di un giallista di razza al genio
figurativo del grande critico d’arte che ci guida in un viaggio visivo attraverso
i monumenti e le scene di vita di un’epoca lontana, tragica e suggestiva, l’Età
di Mezzo.
Alla fine, dell’abbazia divorata
dalle fiamme scatenate dal monaco Jorge, custode dell’ortodossia cattolica, non
rimane niente, così come delle nostre illusioni – questo sembra essere il
messaggio dell’autore – di cogliere l’essenza delle cose attraverso la
conoscenza, quando invece a malapena ne possediamo dei nomi che altro non sono
che articolazioni del linguaggio di cui abbiamo perso il senso originario. Stat Rosa pristina nomine, nomina nuda
tenemus, è questo il significato dei versi che chiudono la narrazione di
Adso da Melk / Umberto Eco e danno il titolo al libro.
Il professore, in realtà, si
divertiva a giocare, con filosofia, arte e letteratura in quanto complessi di
simboli attraverso cui si affanna la cultura da sempre a cercare di dare un
senso alla realtà. Non esiste quell’assoluto a cui tendeva l’uomo medieoevale,
ma esistono tutta una serie di rappresentazioni della realtà stessa diverse tra
loro e numerose e varie quanto gli esseri umani. Il cosiddetto relativismo di
una cultura sempre più aperta, liberata dalle costrizioni di ogni genere.
Nessuno dei suoi libri successivi
riuscì a bissare il successo del Nome della Rosa, che era stato probabilmente
il prodotto di uno stato di grazia irripetibile. Ma tutti i romanzi successivi
di Umberto Eco ripetono lo stesso schema: è una “mimesis biou”, una rappresentazione della vita, della realtà,
secondo la percezione di un dato momento storico e secondo la deformazione
naturale e/o interessata che gli uomini ne compiono. Tutti i suoi libri
successivi vertono in sostanza su questo argomento. "Quando gli uomini
smettono di credere in Dio, non è che non credono più a niente. Cominciano a
credere ad ogni cosa".
Il Pendolo di Foucalut gioca – ma si tratta di un gioco serissimo e
documentatissimo – con la leggenda nera dei Templari e tutte le leggende di
vario segno e colore che sono sorte a proposito di Cabale, organizzazioni
segrete che attraversano la storia dell’uomo e complotti vari. Erano gli anni
del resto in cui uscivano libri come Il
santo Graal di Baigent, Lincoln e Leigh, che scatenò per primo la caccia al
mistero, all’esoterico, alla discendenza del divino tra noi. Il libro comincia
e finisce al Conservatoire
des Arts et Métiers di Parigi, dove viene conservato l’originale
pendolo ideato dal fisico Leòn Foucault per misurare la rotazione della Terra.
Dan Brown farà iniziare più tardi il suo Codice Da Vinci nei saloni del Louvre,
ma si prenderà molto più sul serio di quanto Umberto Eco mostri di voler fare,
pur trattando temi serissimi o almeno vissuti come tali da una porzione sempre
crescente di umanità.
L’isola del giorno prima è un altro esperimento. Riportare in prosa
del ventesimo secolo la narrazione dei grandi resoconti di viaggio e dei
romanzi d’avventura del Sei-Settecento a partire da Daniel De Foe. L’idea della
nave che naufraga nell’Oceano Pacifico a cavallo del punto fisso,
l’Antimeridiano di Greenvich, è affascinante. Alzi la mano chi non è preda
della suggestione ogni notte di Capodanno al pensiero che mentre da noi scocca
la mezzanotte al largo delle coste australiane essa è già passata da dodici
ore, e gli indigeni di quei luoghi vivono già il nuovo anno. La Daphne, il
relitto su cui si muove il protagonista, giace per metà nel giorno prima e per
metà in quello successivo. Da lì parte un excursus di Eco attraverso tutta la
filosofia e la proto-scienza entro cui si dibatteva la mente dell’uomo appena
liberata dall’aristotelismo e dalla concezione del mondo tolemaica.
Con Baudolino si ritorna nel Medioevo. Non quello delle abbazie ma
quello di Federico Barbarossa, della lotta tra Papato e Impero (sullo sfondo
della quale Eco accenna anche alla fondazione della sua città natale,
Alessandria), del richiamo dell’Oriente scatenato dalle Crociate. Il favoloso
regno del Prete Gianni nell’immaginario medioevale racchiudeva in sé tutto ciò
che esisteva ad est e su cui fino alla riconquista del Santo Sepolcro l’uomo
europeo aveva potuto solo cercare di fantasticare. La tecnica di cominciare il
manoscritto in volgare medioevale e poi di proseguirlo in italiano moderno contiene
suggestioni manzoniane.
La misteriosa fiamma della Regina Loana nasce come pretesto per un
ritorno all’infanzia. Quella dei coetanei dello stesso Eco che da ragazzini
leggevano i primi fumetti su carta stampata, da Cino e Franco (il titolo del
libro è quello di una loro avventura) a Flash Gordon a Mandrake. Il tema del rapporto
tra età infantile ed età adulta viene sviluppato attraverso una cavalcata negli
archetipi della letteratura avventurosa a fumetti, nonché spunti e citazioni di
Jack London, Henry Rider Haggard e addirittura di Socrate. Il protagonista
perde la memoria, poi la ritrova. Ma, "nello stesso istante in cui seppe,
cessò di sapere". Si cresce, si acquistano cose preziose, se ne perdono
altre ancora più preziose.
Il Cimitero di Praga gioca con la storia dell’Ottocento, ma
soprattutto con le sue leggende nere. Dai retroscena del Risorgimento italiano
alla letteratura (in gran parte ovviamente inventata) a proposito del complotto
ebraico per dominare il mondo, si corre nel tempo a fianco di Giuseppe
Garibaldi, Alexandre Dumas, Eugene Sue, Victor Hugo, la Cabala e la leggenda
del Golem (nata appunto a Praga nel XVI secolo) fino ai Protocolli dei Savi di
Sion. Alla fine il libro sembra terminare suggerendoci un interrogativo: siamo
sicuri che la nostra storia sia proprio andata come ce l’hanno raccontata i
testi ufficiali?
La stessa domanda che ci poniamo
al termine di Numero Zero, ma qui
l’ambientazione è collocata ai giorni nostri e la tesi ancora più suggestiva
proprio perché investe e stravolge la nostra stessa vita. E se Mussolini non
fosse morto a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945 e scampato all’esecuzione
da parte dei partigiani fosse riuscito a mettersi in salvo? E dal suo rifugio
avesse orchestrato tutte le trame nere (e le controtrame di altro colore) del
dopoguerra?
Tesi e antitesi. Domande che non
hanno e forse non possono avere risposta. Ma non era la risposta ad interessare
il professor Umberto Eco, quanto la stessa domanda. Il fatto stesso di porsela,
magari tra il serio ed il faceto. La realtà e la sua rappresentazione possono
mai coincidere? Se così fosse avrebbe ragione di esistere una semiotica, una
scienza dei simboli e dei significati?
Esista o meno quel mondo
superiore, quella vita dopo la vita a cui Umberto Eco aveva smesso di credere
per colpa di San Tommaso, c’è da pensare che adesso il professore ne sappia –
se possibile – molto di più. A noi restano i suoi libri, e tutte le vite che ci
ha regalato solo per il fatto di averli letti.
Mario Vargas Llosa, Umberto Eco, Salman Rushdie |
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