Giorno del Ricordo. Stavolta, piuttosto che scrivere mie considerazioni, mi limito a pubblicare un brano tratto da Magazzino 18 di Simone Cristicchi. E' il racconto di un esule istriano, credo che valga più di mille parole che possiamo scriverci sopra a commento. E soprattutto vale più di ogni sciocchezza che inevitabilmente sarà scritta "da sinistra" ad oltraggio di questa giornata e di quello che significa. Sono parole scritte con il sangue di nostri concittadini. Sono parole simili a quelle che ho sentito pronunciare alla madre della mia compagna, istriana, le rare volte che ha trovato la forza di parlare della sua infanzia.
Adesso la sinistra non fa altro che parlare di accoglienza, si riempie la bocca e ci riempie le orecchie della parola solidarietà. Ecco quale fu l'accoglienza riservata dai "compagni" ai loro connazionali in fuga da Tito settant'anni fa, e quale fu la solidarietà che gli esuli trovarono in Italia.
Il treno procedeva lento.
Partimmo da Fiume, destinazione: la Toscana. Dovevamo attraversare l’Italia che
noi immaginavamo generosa e ospitale. Sulle carrozze da carro bestiame che ci
portavano laggiù, c’erano per lo più vecchi, donne e bambini come me, stipati
come sardine. Eravamo infreddoliti, affamati, i più piccoli piangevano perché
mancava il latte. «Va bene» pensai «prima o poi ci fermeremo». La prima sosta,
per scendere a sgranchirci le gambe e mangiare qualcosa, fu a Bologna.
Finalmente la stazione.
Il treno rallentò piano piano fino a fermarsi. Ad
accoglierci trovammo tanta gente, con le bandiere rosse. Le stesse di Tito. Non
capivo. Allora mi girai verso la mamma e le chiesi: «Mamma, ma il treno si è
sbagliato? Siamo tornati a Fiume?». No. Erano gli operai e i ferrovieri
comunisti che improvvisavano uno sciopero per impedire al convoglio di fermarsi
nella loro città. «Fascisti, viaaa!» gridavano. «Siete tutti criminali
fascisti!» La nostra patria era affamata, diffidente. Diversi erano convinti
che chi fuggiva dall’Istria «rossa», dal paradiso del comunismo, fosse un
criminale. Alle dame di carità, arrivate in stazione per darci latte e coperte,
fu impedito di avvicinarsi. Nemmeno il latte ai bambini. Le porte del treno
rimasero chiuse. Non so neanche quante ore passarono, il viaggio mi parve
infinito.
Alla fine io, la mia famiglia e qualche centinaio
di «pericolosi nazionalisti» arrivammo al campo profughi di Laterina, vicino ad
Arezzo. Attraversammo un grande cancello verde, sorvegliato da carabinieri
armati di mitra e circondato da filo spinato. Non ci aspettavamo una casa, ma
nemmeno un campo di concentramento! In quei ventidue baracconi abbiamo vissuto
per quasi dieci anni. Balle di paglia come materassi, un bagno in comune per
venti persone. Con le coperte appese ai fili di ferro, ogni famiglia cercò di
creare la propria «casa», innalzando dei piccoli divisori tra una «stanza» e
l’altra. Così, giusto per avere un minimo di intimità. Anche se poi si sentiva
tutto: chi parlava, chi litigava, chi rimproverava i figli, chi la notte
cercava di fare l’amore. Magari uno starnutiva e dal fondo della baracca un
altro rispondeva: «Salute!». E poi l’odore. A ripensarci, me lo porto dietro da
una vita intera. Forte, acre e dolce, uno strano miscuglio del cibo della
mensa, della naftalina del mio vestito, l’unico che avevo, e di quello ancora
più forte, imbarazzante, dei miei capelli. Che non potevano essere lavati.
Ci siamo vergognati a lungo e abbiamo continuato
a portare la vergogna dentro. Ancora oggi mi sento quell’odore addosso, e non
se ne vuole andare: è l’odore del campo profughi. Mi ricordo il freddo del
1956, il gelo dentro le baracche senza riscaldamento, e quella notte che per
caso sentii mio padre raccontare a voce bassa che vicino a Trieste, nel campo
profughi di Padriciano, Marinella era morta di freddo. E questo nome,
Marinella, io non lo posso più scordare. Aveva un anno, Marinella. A sedici
gradi sottozero, con la neve che entrava da porte e finestre, non aveva
resistito. Purtroppo non fu la sola. Per i nostri vecchi era dura: morivano di
malinconia. Mio nonno, per esempio, nel momento stesso in cui arrivammo al
campo profughi smise di parlare. Mai più ho sentito una sola parola uscire
dalla sua bocca. Tutti i giorni lo vedevo camminare avanti e indietro per i
lunghissimi corridoi dei cameroni, poi di botto si fermava davanti a una finestra,
fissava un punto nell’infinito, per ore e ore. Si asciugava le lacrime col
dorso delle mani. Così come i nostri vicini, che a Fiume possedevano un bel
palazzo signorile e ora si ritrovavano pezzenti. Persone come mio suocero, che
in Istria aveva dei pescherecci e ora faceva il facchino. Per noi piccoli
invece era diverso. C’era la scuola, un campo dove giocare a pallone. Sembrava
di vivere in campeggio.
I nostri genitori, quanti sacrifici hanno fatto
per tirare avanti! Si sono adattati a qualsiasi lavoro pur di non farci mancare
l’indispensabile. Andavano persino a spalare la neve. L’inverno pregavano Iddio
che nevicasse perché per spalare gli davano duemila lire a notte, e con duemila
lire si sopravviveva. Molti si sono rimboccati le maniche, sono stati capaci di
inserirsi. Altri invece si sono lasciati andare, privi della forza di
ricominciare. Tanti padri si uccisero con l’alcol, alcune donne si tolsero la
vita per il dolore dello sradicamento: come Giovanna, esule da Buie d’Istria,
ritrovata impiccata a un ulivo perché le mancava troppo la sua terra. Anche
loro, in qualche modo, morti di esodo. Vittime, queste, mai considerate. Per la
gente del luogo eravamo «gli slavi», «gli zingari», «i banditi giuliani». Ci
chiamavano così. Col tempo hanno imparato a conoscerci, abbiamo dato pure noi
il nostro contributo alla società, e siamo stati apprezzati. Fu un esodo, il
nostro, che nessuno portò mai nelle piazze. Ma noi esuli non abbiamo mai
protestato.
Ci vergognavamo, ci sentivamo quasi in colpa per
il disturbo: «Scusate, se ci hanno strappato la nostra terra». Ma nessuno
riuscì a strapparci la nostra dignità. A Fiume ci sono tornato per la prima
volta a sessant’anni. Ho trovato una città molto diversa da quella che avevo
lasciato cinquant’anni prima. Eppure, riconoscevo ogni sasso. Sono arrivato fin
sotto casa di mia nonna senza sbagliare strada neanche una volta. Casa mia.
Nella «città vecia». Un portone in stile veneziano del Settecento, le scale ancora
in legno. Le stesse che ho fatto milioni di volte, su e giù. Mentre ero li,
immobile, dalla porta uscì una donna: «Sta oces ti?» mi chiese. «Che vuoi?» Il
mio primo istinto fu di risponderle male, invece me ne scappai via. Come un
ladro.
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