Il Napoli perde la testa della
classifica. Dove sta Zaza, cantava Gabriella Ferri diversi anni fa. La difesa
biancoceleste non fa in tempo a intonare il refrain che l’uomo venuto da
Sassuolo regala alla Juventus la pole position per vincere il quinto titolo
consecutivo. Presto ancora per dirlo, quando gli avversari si chiamano Higuain,
Callejon, Hamsick, Insigne. Ma la sensazione è quella di fine cena:
sparecchiamo, carichiamo la lavastoviglie e a letto. Anche a questo giro è
andata. Va a finire che bisognerà riadattare il vecchio adagio di Gary Lineker:
il calcio è un gioco che si gioca undici contro undici, e alla fine vince la
Juventus.
L’anno scorso le “zebre” erano
più forti, arrivarono a tanto così dalla Champion’s League ed il Barcellona può
ringraziare un arbitraggio non proprio ostile se alla fine ha sollevato la
Coppa con le Orecchie. Quest’anno la Juve sembrava ridiscesa sul pianeta Terra,
ridimensionata dalla partenza di ben cinque campionissimi per lungo tempo
sostituiti da giocatori che si limitavano ad essere soltanto “normali”. Poi ha
preso il via, complice un parco sfidanti tra i più mediocri della storia del
calcio italiano. La Roma subito out, alle prese con il dopo Totti , con l’infortunio
di Salah e con una pletora di giocatori più che buoni ma che si pestano i piedi
senza costrutto. Il Milan alle prese con un nuovo corso che più nuovo non si
può, con una difesa di ragazzini ed un centrocampo dove il più determinante è
Riccardo Montolivo (e qualcuno a Firenze direbbe: ho detto tutto). L’Inter è la
solita Inter dei vecchi tempi morattiani e premorattiani: tanti giocatori di
grido, individualmente campioni, che non fanno una squadra amalgamata nemmeno a
piangere. Poi magari cominciano da stasera, ma finora hanno dipeso più che
altro dagli estri di Icardi e dei nostri due ex, mai abbastanza rimpianti,
Jovetic e Llajic.
Il Napoli ha un grandissimo
attacco, che ruota attorno al miglior centravanti del mondo, il Batistuta degli
anni duemila: Ma il resto della squadra non è assolutamente all’altezza, e non
assicura probabilmente una marcia da rullo compressore come quella che hanno
intrapreso i bianconeri tra la metà del girone di andata e quello di ritorno.
Record di vittorie che nemmeno il Grande Torino o le grandi Juventus del
passato, remoto e recente. Va a finire che l'avversario più tosto, quello che
ha messo maggiormente in difficoltà i campioni in carica ed in prospettiva è
stata proprio la nostra Fiorentina. Almeno quella del girone di andata, che
metteva in difesa tutte le avversarie, compresa proprio la Juventus per circa
ottanta minuti nel proprio stadio. Il problema di quella Fiorentina, acuitosi
con il fiato corto e la fine del bel gioco, era ed è quello di non segnare
abbastanza, malgrado Ilicic e kalinic in due abbiano fatto quasi i gol di
Higuain. Come successe allo Stadium, nei confronti diretti la squadra viola ha
giocato sempre emglio dell’avversario finendo per perdere. Conta buttarla
dentro, e forse Paulo Sousa ha tirato fuori il massimo da giocatori che – con un
paio di eccezioni – non sono proprio campionissimi.
Insomma, a quanto pare anche
quest’anno ormai si gioca per l’ambo ed il terno. Tombola e cinquina appaiono
fuori portata. A Firenze arriva l’Inter. Sarebbe eccessivo definirlo un derby
di “malate”, visto che si tratta della terza e quarta squadra di questo
campionato (ma la Roma sta ricominciando a “salare” le sue partite).
Sicuramente un derby di convalescenti, che aspettano di ritrovare le certezze
del girone d’andata. Chi vince stasera esce dalla crisi, chi perde ci sprofonda
di nuovo. Per la Fiorentina l’errore più grave sarebbe di indugiare a pensare
ai quattro gol con cui sbancò San Siro quattro mesi fa. Circostanze forse
irripetibili. Come a Torino, a Firenze la partita può essere decisa da episodi.
Dagli uomini gol, se si ricordano di esserlo.
Pare che i della Valle non
saranno nella tribuna del Franchi. Impegni di lavoro o preoccupazione per la
contestazione strisciante, pronta a riaffacciarsi al verificarsi di un
eventuale risultato negativo. I tifosi che sognavano il primo posto si stanno
mestamente e sommessamente accontentando del terzo (e di una eventuale
partecipazione alla Champion’s tutta da inventare, per una società che discute
e lesina anche sull’acquisto di ragazzi di 18 anni di belle speranze). Ma
prenderebbero assai male ulteriori declassamenti, questa è la sensazione di chi
scrive.
Tra le voci ricorrenti, c’è anche
quella che vede Diego e Andrea battere il mercato cinese alla ricerca di
acquirenti per almeno una quota della società. E’ una voce che circola da anni,
vecchia ormai come il progetto dello stadio alla Mercafir e chissà se
altrettanto fondata. E’ una voce forse più verosimile di quanto faccia pensare
appunto il decorrere del tempo. E’ vero che senza capitali provenienti dai
paesi cosiddetti emergenti il calcio italiano non rialza più la testa, e quello
fiorentino non fa eccezione. E’ vero altresì che forse a Casette d’Ete non
regna più l’entusiasmo di qualche anno fa, ammesso che di entusiasmo si sia mai
parlato. C’è voglia di ripartire onori ed oneri, magari in cambio di qualche permesso
ad investire in paesi finora off limits ai nostri capitali.
E’ vero anche – e questa
riflessione bisogna farla una buona volta – che al di là dei discorsi della
classe politica più o meno interessata, Firenze è una città estremamente
complicata per chi vuole investire in grandi e piccole opere. Proprio la
questione della Mercafir (al netto dello scaricabarile reciproco: colpa del
Comune, colpa della Società) è sintomatica, per non parlare di Tramvie,
tribunali e mercati vecchi e nuovi. Per chi viene da realtà dove sono pochi a
decidere e con la massima urgenza ed efficienza è probabilmente frustrante
venire qui a rapportarsi con politici che intendono lo sviluppo economico come
la riscossione dei balzelli nel Medioevo: chi siete, cosa volete, un fiorino!
Rapportarsi con un Nardella o con
un Rossi, ma soprattutto con tutto ciò che rappresentano nella politica e nell’economia
che è loro subordinata, può scoraggiare qualsiasi magnate pieno di soldi e di
voglia di investirli in riva all’Arno. A Parigi, a Londra, a Monaco, gli stadi
si fanno in un anno o due. Qui si fanno i discorsi, e neanche definitivi.
Immaginarsi lo Sceicco del Paris Saint Germain o Abramovich alle prese con i
nostri amministratori è qualcosa che va al di là della più fervida
immaginazione.
Stiamo a vedere. Fiorentina –
Inter intanto si gioca senza i patron. E’ un match dai molti precedenti, anche
significativi. Ognuno scelga quello che vuole, magari evitando di soffermarsi
sulle voci secondo cui i proprietari viola sono a disagio dovendo giocare
contro la loro squadra del cuore, almeno in giovinezza. O contro quella con cui
hanno avuto i rapporti più difficili in maturità, come insegna Calciopoli.
Tanti ricordi, a cominciare da
quel match di campionato dell’aprile 1980 in cui i nerazzurri festeggiavano lo
scudetto di Bersellini & Altobelli e i viola un sesto posto insperato, con
contorno di (allora) gemellaggio. Finì con la Polizia che sparava candelotti
lacrimogeni ad alzo zero, le curve deserte in un battibaleno e la gente
inferocita. Nessuno che ricordava i due salvataggi operati dall’Inter nel 1971
e nel 1978 in nostro favore. Tutti aspettavano il Conte Pontello, che acquistò
la squadra il mese dopo. E cominciò un’altra storia.
Il 4-3 firmato Stefano Borgonovo,
il 4-1 firmato Jovetic e Llajic (ma dalla parte viola), il 3-0 propiziato da Babacar
con un eurogol che a rivederlo oggi fa pensare se in campo adesso vada – con i
suoi documenti – qualche suo lontano parente.
Il peggiore errore sarebbe di
ripensare stasera a questi precedenti. O ai Della Valle a colloquio con qualche
emiro o signore dell’economia cinese. Per quest’anno non si cambia, stessa
spiaggia stesso mare.
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