Quindici anni di proprietà, zero
titoli. Questo è il bilancio che si appresta a festeggiare la famiglia Della
Valle il prossimo 3 agosto 2016,
a meno che nei pochi mesi che mancano non avvengano
fatti clamorosi ed imprevedibili o che la famiglia stessa non decida di passare
la mano. Eventualità in egual misura classificabili come assai remote.
Da quando presero dal Comune di
Firenze (a modico prezzo) il titolo sportivo denominato Fiorentina 1926
Florentia Viola, poi ribattezzato A.C.F. Fiorentina a seguito di riacquisto di
simbolo e trofei (anch’esso a prezzo abbastanza modico) ma non della storica
sede di Piazzale Donatello, i Della Valle possono dire, mettendosi una mano sul
cuore (quella libera, che ultimamente corre sempre più di rado alla tasca dove
tengono il portafoglio) di non averci certamente rimesso, comparando costi e
benefici in senso assoluto.
Soltanto il fatto di poter
scrivere la semplice ma carismatica parola “Florence” sotto il marchio Tod’s è
stato tanta roba. Immaginatevi andare a giro per il mondo con un brand targato
Casette d’Ete, Sant’Elpidio a Mare o Cura Mostrapiedi Marche, che con tutto il
rispetto eccitano la fantasia come il gioco della Fiorentina l’anno di
Mihajlovic e Delio Rossi. Altra cosa andarci targati Firenze, anche in Mongolia
Inferiore sanno di che si parla. Che cos’erano le Tod’s e le Hogan prima del
2002 ne erano a conoscenza pochi fortunati, che cos’è il capoluogo della
Toscana lo sanno tutti almeno dal tempo di Carlo Magno. Chi è che ha guadagnato
di più dal matrimonio civile celebrato dal sindaco Domenici e dall’Assessore
Giani nell’estate del 2002 si può dunque facilmente intuire. La Fiorentina ha
zero titoli in bacheca, Diego Della Valle è il quattordicesimo uomo più ricco
d’Italia, a stare schisci schisci.
Il dibattito che infuria
periodicamente a scuotere dal letargo una tifoseria viola che sogna un giorno
di tornare a Wembley partendo da Gubbio verte appunto sulla fortuna di “avere
il babbo ricco”. La stampa cittadina, che in simili casi la fa – o dovrebbe
farla – da opinion leader, si trova in difficoltà. Essendo l’oggetto del
dibattere anche il datore di lavoro (diretto o indiretto) di molti, o comunque
colui che decide gli accessi allo stadio, con annessa possibilità di assistere
gratuitamente alle partite della squadra viola ed esercitare di contorno il
mestiere più ambito del mondo.
Fuor di polemica, crediamo non si
possa negare la fondatezza di alcuni dati. Nelle mani marchigiane,
difficilmente si ripeterà che la nostra squadra del cuore abbia a rivivere
vicissitudini come quelle che negli anni a cavallo tra il ventesimo ed il
ventunesimo secolo portarono alla sua dissoluzione come società, ad un
fallimento aiutato se non pilotato da molti secondo il loro interesse, alla sua
faticosa rinascita tra campi innevati e trasferte da Bar Sport di Stefano
Benni.
Ma tutto si risolve a quello. Il
tifoso, disse una volta qualcuno, è tifoso perché non vuole pensare a niente,
vuole soltanto sognare. E il guaio è che a Firenze non si sogna più. E quando
lo si fa si tratta di uno di quei sogni in dormiveglia e con lo stomaco
appesantito da cene mal digerite, con la consapevolezza di doversi risvegliare,
e magari anche bruscamente, che bussa all’inconscio. Insomma, alla fine come si
dice a Firenze è stato “più il patire che il godere”. E si finisce a dare
ragione a chi scuoteva la testa fin dall’inizio.
Dice, ma ormai al di fuori del
circuito dei grandi diritti televisivi in Italia non si vince più niente. Come
se il Napoli che sta lottando con la Juventus per scucirle lo scudetto dalla
maglia lo facesse grazie al bacino di utenza e non ai gol di Gonzalo Higuain e
compagni. Come se Lotito che ha portato a casa due Coppe Italia fosse un
magnate da classifica di Forbes, un Bill Gates de noantri. Come se la Roma che
dai, picchia e mena riuscirà prima o poi a riportare lo scudetto a sud della
Linea Gotica ricevesse contributi a fondo perduto dall’Unione Europea.
Ah, già. Calciopoli, Jenny ‘a
carogna, il Palazzo, Galliani, Agnelli, Marchionne, i Rosiconi, Montolivo, il
Comune, la Regione. E’ sempre colpa di qualcun altro se piani e programmi degli
uomini di Viale Manfredo Fanti non vanno a buon fine. Nel 2006 sarebbe bastato
mandare qualcuno ogni tanto alle riunioni di Lega per capire che aria tirava, e
che i 31 gol di Luca Toni sarebbero stati mandati a male da una congiura di
Palazzi. Pardon, di palazzo. Per non parlare dell’anno prima, perso dietro a “cattivi
pensieri” nei ritagli del tempo occorso a litigare con tutto il calcio italiano
e a farsi prendere sulle scatole anche dalle Suore Orsoline.
Nel 2009 sarebbe bastato rimanere
in carica come presidente, caro Andrea Della valle, e continuare a parlare con
il Comune dei progetti di stadio nuovo e con il proprio staff dei progetti di
scudetto, di vittoria sbandierati fino all’estate precedente. Invece di dire
all’allenatore di cercarsi un’altra squadra mentre tornava dalla vittoria più
prestigiosa di sempre, quella ottenuta ad Anfield Road a Liverpool. Invece di
mandare a quel paese Matteo Renzi, che era furbo già da Sindaco e non aspettava
altro (salvo poi venire allo stadio anche lui a gratis indossando improbabili
magliette viola).
Nel 2011 sarebbe bastato dare in
mano a Sinisa Mihajlovic una squadra meno bollita di quella delle “vedove di
Prandelli”. Non si chiedeva tanto, niente di più di quello che negli stessi
anni riusciva ad un Lotito o a un De Laurentiis, né Bill Gates né Steve Jobs
buonanima. Nel 2013 sarebbe bastato fare 31 dopo il 30 e mettere in mano a
Vincenzo Montella un attacco di valore medio che finalizzasse quello che in
quel momento era il gioco più bello del campionato. E non ci si venga a dire
che Rossi e Gomez non erano altro che due scommesse azzardatissime e
operosissime. Perse inevitabilmente le quali a far gol restavano solo Oleksandr
Yakovenko e Ryder Matos, oltre alla meteora Alessandro Matri.
Nel 2015 infine sarebbe bastato
credere un po’ più nel nuovo tecnico prescelto, quel Paulo Sousa per il quale
si decise di litigare con il Basilea (niente a confronto di altri “litigi”
successivi), e dargli qualcosa di più degli 11 giocatori contati. Invece, come
quando eravamo ragazzi e giocavamo a “porticine”, siamo contati proprio quando
finalmente ci ritroviamo in testa (dopo diciassette anni). E come quando
eravamo ragazzi e uno si ammalava o non poteva scendere a giocare, qualcun
altro deve chiamare la sorellina piccola per far pari.
La colpa parte da Casette d’Ete e
quando arriva a Firenze o è morta fanciulla oppure se l’è beccata qualcun
altro. Da Montolivo e Prandelli ai giorni nostri c’è e c’è stata una bella fila
di pretendenti. Gente che magari al famoso “progetto” ci aveva anche creduto.
Poi, come il Batistuta deluso dal Carnevale di Edmundo, aveva deciso di non
morire (sportivamente) qui, con il bilancio in pareggio o in attivo e i titoli
a zero.
Immaginarsi De Laurentiis che
volendo fare – a suo dire – il salto di qualità invece di andare a Palermo a
prendere Edilson Cavani va a Genova a prendere, con tutto il rispetto, Emiliano
Bonazzoli? E che dopo aver fatto plusvalenza mostruosa con lo stesso Cavani
invece di andare a Madrid a prendersi Gonzalo Higuain mette tale plusvalenza a
bilancio (e il cash Dio solo sa dove) e fine delle trasmissioni? Dice, ma a
Firenze i conti sono “sani” e gli stipendi vengono pagati puntualmente. E a
Napoli no? Ve lo immaginate Higuain in arretrato di stipendio? Sarebbe ancora a
Fuorigrotta? O sarebbe a giocarsi la finale di Champion’s altrove, come a
questo punto gli spetterebbe?
Insomma, c’è poco da fare i
permalosi e molto da chiedersi se forse non sarebbe stata necessaria maggiore
umiltà, oltre che chiarezza di idee, nell’avvicinarsi al calcio da parte della
famiglia Della Valle. Questa assenza dalla tribuna del Franchi nel momento
critico di una stagione esaltante ma difficilissima è stata un gesto
bruttissimo, comunque lo si voglia motivare o giustificare. Un pessimo segnale
alla squadra ed alla città. Una caduta di stile per chi ambisce ad essere
l’arbiter elegantiae del ventunesimo secolo italiano, che sottintende anche un
approccio distorto a questo sport, sia che lo si intenda come sport appunto o
anche come business.
Mario Cognigni, ragioniere
prestato al calcio, si lasciò sfuggire tempo fa una frase significativa,
parlando di “clienti” e non più di “tifosi” per descrivere il “bacino di
utenza” della Fiorentina. Sarebbe bene si ricordasse, e chi gli paga lo
stipendio con lui, che il cliente – soprattutto quando paga e per di più in
modo assai salato – ha comunque sempre ragione.
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