Suo padre Ascenzio era il custode del Tennis Club Parioli.
Grande appassionato di calcio come tutti i bambini italiani, il piccolo Adriano
aveva finito per passare le sue giornate più con la racchetta in mano che con
il pallone tra i piedi. Nel 1968, a 18 anni, era una delle promesse del nostro
tennis, la punta di diamante di un gruppo che era stato spedito in Australia
(uno dei paesi del Grande Slam, uno degli Eldorado del
tennis di quei tempi) a farsi le ossa.
Era tornato con le ossa abbastanza robuste da sconfiggere il numero
uno di allora, il mostro sacro Nicola Pietrangeli, in una delle più
leggendarie finali dei Campionati nazionali assoluti italiani di sempre, a
Bologna nel 1970. La carriera di Adriano Panatta era
cominciata così, raccogliendo la successione di un altro predestinato
fuoriclasse. Destinato a ripeterne i risultati. L’ultimo ad esserci riuscito.
Adriano aveva un fisico atletico che se ben allenato era assai
potente, quanto bastava per assecondare in maniera esplosiva il suo immenso
talento tennistico. Il problema era proprio quello, l’allenamento. Se calava,
il ragazzo tendeva ad appesantirsi ed il talento non bastava più. La sua
carriera nei primi anni fu costellata di alti e bassi che facevano disperare i
suoi allenatori al pari dei suoi tifosi.
Dotato di temperamento agonistico, grinta, carattere e intelligenza,
era capace di rovesciare risultati compromessi e vincere partite incredibili
contro ogni pronostico. Dotato di bella presenza, savoir faire, predisposizione
alle lingue, carisma personale e voglia di vivere, era capace di furoreggiare nei
luoghi del jet set romano, a casa sua, e di ogni dove. Salvo
poi scoprirsi in debito di ossigeno sul campo e finire a perdere – sempre
contro pronostico – altrettanto incredibili partite già vinte o alla sua
portata.
Dal 1970 al 1975 Adriano vinse poco, molto meno sicuramente di quanto
la sua classe gli avrebbe consentito. Palcoscenici principali delle sue crisi
ricorrenti e della perdita di fiducia in se stesso erano gli Internazionali
d’Italia a Roma e la Coppa Davis. Proprio le competizioni
a cui teneva di più. A Roma, non riusciva ad esprimersi, proprio davanti alla
sua gente, soffrendo le forti aspettative del pubblico del Foro Italico più
dei suoi stessi avversari. In Davis, la peggior debacle gli
era capitata a Parigi nel 1975, dove aveva perso il punto decisivo di un match
già vinto contro i carneadi francesi Jauffret e Dominguez.
Fu il momento più basso della sua carriera. Il più critico, quello in
cui pensò addirittura di smettere. L’anno prima aveva perso una semifinale
abbordabile contro il Sudafrica sempre in coppa. L’Italia avrebbe potuto essere
la prima nazione a spezzare il predominio dei quattro paesi del Grande Slam in
Davis. Invece questo onore era toccato ai sudafricani boicottati dal resto del
mondo, grazie alla sua sconfitta contro un quasi ex giocatore come Bob
Hewitt.
Adriano aveva buon sangue, e carattere. Si era anche sposato con la
donna giusta, la compagna della vita, Rosaria. Nel momento peggiore, i pezzi
del suo puzzle interiore andarono tutti a posto. Pochi mesi dopo quella famigerata
Davis a Parigi, a Stoccolma batté il numero uno del mondo Jimmy Connors.
Pochi mesi ancora, fu 1976. Una straordinaria annata.
Con Nicola Pietrangeli come capitano non giocatore, la squadra
italiana di Davis di cui lui era il numero uno si issò fino ai turni finali. Ma
prima, Adriano si trovò di nuovo a fronteggiare la sua Nemesi. Al
Foro Italico si presentò una volta di più come favorito, oltre che come
beniamino della sua gente, del suo pubblico. E una volta di più, fu subito
psico-dramma.
Al primo turno aveva di fronte Kim Warwick, australiano
atipico, da terra veloce. Al Foro la terra c’era, ma sembrava quella di una
palude. Warwick era un ammazza-grandi. Adriano si ritrovò sotto 6-3 5-2 40-15
in un batter d’occhio. Due match points. Due attacchi alla
disperata di Adriano, annullati. Ai vantaggi, altri tre matchball su
servizio contro. Altri tre attacchi, e tre passanti sbagliati dell’australiano.
Sul 5-4, altre tre palle per chiudere a favore di Warwick. Palle appena fuori,
o deviate dal nastro, fallite in un corpo a corpo in cui Adriano era maestro,
con i suoi voli sottorete, le sue veroniche (volée alte
di rovescio). L’ultimo matchball, l’undicesimo, annullato con un
servizio ed uno smash al tie break del terzo set. 3-6 6-4 7-6
Sopravvissuto ad una simile ordalia, al termine della
quale avrebbe dichiarato di non aver mai avuto paura di perdere,
Adriano avrebbe superato un secondo turno difficile contro Tonino
Zugarelli, una specie di derby romano, finito 7-6 6-3. Poi avrebbe eliminato
il numero uno jugoslavo Zeliko Franulovic 6-1 6-4. Nei quarti,
contro Harold Solomon, nuovo psico-dramma. L’americano era un pallettaro di
lusso. Adriano aveva il gioco per neutralizzarlo, ma non la tenuta fisica. In
vantaggio 4-0 nel terzo set, si era fatto riprendere e superare 5-4. Poi
Solomon aveva contestato un lob di Panatta sulla riga che lo
mandava sotto a 0-30. Infuriato per la convalida arbitrale aveva finito per
abbandonare. 6-2 5-7 4-5 30-0
In semifinale, un grande vero campione aspettava Adriano. John
Newcombe era uno degli ultimi giocatori che avevano fatto la leggenda
del tennis australiano. Ma aveva imboccato la fase calante della sua carriera.
E quel giorno Adriano aveva una delle sue giornate irresistibili. Quelle in cui
tutto gli riusciva e niente gli veniva meno. Quelle in cui dava 6-0 6-0 ad un Ivan
Lendl. Newcombe fu sconfitto 6-2 6-4 6-4, senza troppi patemi e con una
sola palla break annullata.
Il giorno dopo in finale c’era Guillermo Vilas, il poeta
argentino. Gran regolarista secondo solo a Bjorn Borg. Adriano lo
subì solo nel primo set, poi lo aggredì volando da una parte all’altra del
campo e della rete. Chiudendo il tie break finale in una
apoteosi che trasformò il Foro Italico in una bolgia. 2-6 7-6
6-2 7-6
Adriano era diventato profeta in patria. Ma non gli
bastava. Roma era un torneo importante, ma non uno dei più importanti. Il
giorno dopo cominciava Parigi, l’Open di Francia. Era lì che si
faceva la storia, lì che si entrava nella Hall of Fame di
questo sport.
Al primo turno, ancora un match point annullato, con
una volée in tuffo sul passante del cecoslovacco Pavel Hutka. Non
erano gli undici matchball di Warwick ma come inizio non c’era
male. 2-6 6-2 6-2 0-6 12-10
Al secondo, facile vittoria sul giapponese Jun Kuki per
6-3 6-1 7-5. Al terzo, facile anche contro l’altro cecoslovacco Jiri
Hrebec, 7-5 6-3 6-4. Negli ottavi, ancora Franulovic, stavolta più
resistente: 6-2 6-2 6-7 6-3
Nei quarti, la resa dei conti. A chi gli aveva contestato la vittoria
di Roma perché mancava il numero uno sulla terra, il ragazzo prodigio, il
terribile Bjorn Borg, Adriano rispose offrendo le più belle due ore di tennis
viste da tanto tempo a quella parte. Era stato l’ultimo a battere Borg al Roland
Garros nel 1973. Lo ribatté di nuovo nel 1976 per 6-3 6-3 2-6 7-6.
Quando lo svedese si ritirò nel 1982, Adriano Panatta si vide certificato il
suo status definitivo di unico giocatore in assoluto capace di batterlo sulla
terra dello Slam parigino.
In semifinale, una delle due brutte copie di Borg, Eddie Dibbs.
L’americano fu travolto 6-3 6-2 6-4. Ma era come se Adriano non avesse fatto
nulla. In finale lo aspettava una specie di gemello di Dibbs, per di più con il
dente avvelenato: Harold Solomon. Stavolta non ci furono abbandoni. Solo gran
tennis da parte di Panatta nei primi due set, 6-1 6-4. Poi la stanchezza di tre
settimane giocate come solo in paradiso, il terzo set all’americano per 6-4 e
il quarto, drammatico, con Adriano che sentiva le energie scemargli. Forse non
più sufficienti ad un quinto set. Al tie break del quarto,
Adriano Panatta si tenne aggrappato alla vittoria a botte di servizio, finché
sul 6-3 Solomon mise in rete una facile volée.
Panatta era il primo italiano a vincere Roma e Parigi nello stesso
anno, l’ottavo in assoluto della storia dopo gente come Jaroslav Drobny, Lew
Hoad, Ken Rosewall, Rod Laver, Tony Roche, Ilie
Nastase e Bjorn Borg. Con la Coppa dei
Moschettieri in mano, concludeva un mese d’oro del tennis italiano che
purtroppo da allora non ha più avuto repliche.
Formidabile quel 1976. Ma non era finita. La Davis era stata fino
allora un miraggio per gli italiani, arrivati soltanto due volte in finale
contro la fortissima Australia nel 1960 e 1961. Niente da fare. Stavolta, dopo
l’Inghilterra dei fratelli Lloyd battuta sul centrale di Wimbledon,
l’Australia la affrontammo al Foro Italico. Panatta soffrì John
Alexander, sua storica bestia nera. Ma ribadì la vittoria del torneo su
John Newcombe.
A dicembre, in Cile, fu già un primo successo evitare il boicottaggio
che certe forze politiche avrebbero voluto attuare contro Pinochet.
Poi arrivò il successo vero, di Panatta, Barazzutti, Bertolucci,
Zugarelli e Pietrangeli. Vittorie di Corrado su Jaime Fillol per
7-5 4-6 7-5 6-1 e di Panatta su Pato Cornejo per 6-3 6-1 6-3.
Poi Panatta-Bertolucci presero il punto decisivo a Fillol-Cornejo, 3-6 6-2 6-3
9-7. L’insalatiera veniva per la prima volta in Italia. Non c’è più
tornata, dopo quel memorabile 1976.
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