Il ballottaggio delle Amministrative 2016
ci riconsegna un’Italia dove perché tutto cambi stavolta qualcosa deve cambiare
davvero, per parafrasare il celebre adagio di Tomasi di Lampedusa.
Qualcosa sta già cambiando.
Alle una di
notte del 20 giugno, quando escono le prime proiezioni attendibili (che
confermano exit poll già affidabili) ed il Movimento 5
Stelle sa con certezza di aver sfondato a Roma, Torino e in altri 17
ballottaggi sui 18 in
cui erano impegnati, Beppe Grillo si affaccia alla finestra
della stanza all’Hotel Forum di Roma, dove ha stabilito il quartier generale di
se stesso. Senza parole – come ormai è consuetudine da quando è scomparso il
suo partner Casaleggio ed è partita questa lunga campagna
elettorale – brandendo in mano un appendiabiti che è più eloquente di
ogni dichiarazione.
Nello
stesso momento, al quartier generale del Movimento, un tifo da stadio accoglie Virginia
Raggi, la prima donna sindaco della Capitale. Sin-da-co,
Sin-da-co, Sin-da-co di Roma, Virginia Raggi Sin-da-co di Roma! I 5Stelle
hanno appena vinto uno storico derby contro il PD di Giachetti.
Al triplice fischio della chiusura dei seggi divampa la festa tanto attesa.
Virginia Raggi prima donna sindaco di Roma |
Più in la, Luigi
Di Maio cerca di essere istituzionale, nel momento in cui il popolo
delle Cinque Stelle potrebbe fare salti di gioia come quelli che a Napoli un De
Magistris in formato Masaniello sta facendo sull’onda
dell’unico risultato che in termini numerici può reggere il confronto con
quello della Raggi. Roma e Napoli sono le due facce stravolte di un disagio
urbano che ormai tracima dai confini istituzionali. Un rabbioso voto di
protesta di segno diverso, un certificato di morte per la politica così come
l’abbiamo conosciuta finora.
Hanno un
bel dire i PD che si tratta solo di un voto amministrativo. Lo diceva
Casaleggio, lo ripete Di Maio ai microfoni post-elettorali: se il Movimento
vince a Roma, è l’anticamera di Palazzo Chigi. Il Movimento
versione 2.0 da stanotte ha l’onore e l’onere di rimettere in piedi la capitale
dopo anni di dissesto bipartisan. Sapendo che se ci riesce subito dopo avrà
l’onore e l’onere di fare altrettanto con il paese.
L’appendino
di Grillo allude al risultato di Torino. L’omonima candidata grillina ha
rimontato e surclassato il democratico storico Fassino, che
adesso vaga per microfoni senza capacitarsi, dando tutta la misura della
scollatura ormai insanabile tra il suo partito e il paese. Se Roma era quasi
scontata (ma non nelle proporzioni con cui la Raggi ha conquistato il
Campidoglio), Torino è la sorpresa vera. Il risultato che impedisce al PD di
uscirsene con la solita formula di rito, abbiamo tenuto, e lo
costringe ad ammettere una sconfitta senza se e senza ma.
Chiara Appendino neo-sindaco di Torino |
La vecchia
capitale operaia del paese, la città dove l’antico Partito Comunista
misurava più che altrove tenute e avanzamenti, si scopre
esausta del post-comunismo soprattutto in quei quartieri dove la classe operaia
ancora sopravvive. Non basta la borghesia radical chic ancora
osservante della liturgia (pur a collo torto verso la vulgata
renziana) a ripetere il risultato di Milano, dove Sala sfrutta
una onda lunga dell’Expo su cui bisognerebbe interrogarsi, per
salvare la nottata dei democratici.
Sala
sopravanza Parisi di una incollatura, ma è quanto basta. La
metà più uno dei milanesi che vanno a votare si dicono in qualche modo
soddisfatti di cinque anni di gestione Pisapia. Agli altri,
soprattutto – come rimarca Salvini – a quel mezzo milione
circa di elettori meneghini di centrodestra che non sono andati a
votare rispetto al primo turno, i prossimi cinque anni serviranno per capire se
l’astensione è bene o male.
Nel paese,
complessivamente, un italiano su due è rimasto fuori dai seggi. E’ il partito
che vince realmente questa consultazione elettorale, ed è un mandato
politico di difficilissima gestione.
Per parte
sua, il partito democratico deve aver mobilitato come suo
costume tutti coloro che erano in grado di reggersi su due gambe e di
rispondere al richiamo delle sirene del Nazareno. A Trieste,
il candidato della sinistra nostrana ed etnica Cosolini
(la regione è a statuto speciale e le guarentigie alla minoranza
slovena superano addirittura quelle dei sudtirolesi in Alto Adige) dimezza lo
svantaggio iniziale rispetto al candidato unico del centrodestra Di
Piazza. Memori della elezione della governatrice Serracchiani
nel 2013, è da immaginarsi che ci sia stato addirittura un bel traffico di
pullman tra la Venezia Giulia e la ex Jugoslavia.
Tiene
Bologna, roccaforte assieme ad una Firenze che stavolta non votava di un
partito che nel resto d’Italia rischia l’estinzione e abbisogna forse di essere
dichiarato specie protetta dal W.W.F. Il sindaco felsineo uscente, riconfermato
al 54%, si chiama Merola. In realtà la sceneggiata va in onda
in quel di Napoli, dove De Magistris si conferma fenomeno indecifrabile. L’ex
magistrato governa come Masaniello e si comporta come tale,
rivendicando una vittoria contro tutto e contro tutti. Anche qui, ai prossimi
cinque anni l’ardua sentenza.
Adesso
viene il momento più difficile, per tutti. Sia per chi è uscito dalla rabbia e
dalla protesta, sia per chi è sopravvissuto sull’onda di un vero o presunto buongoverno.
E’ il momento, appunto, di governare. Perché le nostre città grandi e piccole
ne hanno bisogno. E perché il prossimo appuntamento è politico. Ad ottobre il
referendum pro o contro l’attuale esecutivo, ed en passant pro o
contro la riforma della Costituzione che questo ha imposto al
paese. Poi le elezioni. Le prime che dovrebbero partorire bene o male un
esecutivo rappresentativo dal 2008
a questa parte.
Ci sarà
ancora Matteo Renzi a tweettare, pardon, a governare
su tutto ciò? Il premier si è ricordato stanotte di essere segretario
del partito che ha perso e ha convocato il direttivo per il prossimo 24 giugno.
Non ha l’aria di essere un Gran Consiglio, come quello che si riunì il 24
luglio di qualche anno fa. Ma insomma al Nazareno confluiranno diversi
personaggi che hanno voglia – e da tempo – di presentare il conto all’ex ragazzo
prodigio di Rignano sull’Arno. E zanne affilate come tigri dai denti di
sciabola. Forse potrebbero trovare l’occasione per presentare quel conto.
Il 24
giugno è San Giovanni. L’ex sindaco di Firenze dovrebbe ricordare che
da queste parti si usa dire che San Giovanni non vuole inganni. Non
più, almeno.
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