mercoledì 1 giugno 2016

Una candela nel vento



Il 1° giugno 1926 alle 9,30 del mattino al Los Angeles County Hospital una giovane donna di 24 anni a nome Gladys Pearl Monroe mise al mondo una bambina a cui impose il nome di Norma Jeane. Una storia come tante altre alle spalle, un destino come tanti altri davanti, o così almeno sembrava.
Gladys era assistente di studio presso la Consolidated Film Industries, una delle tante fabbriche dei sogni che stavano facendo di Hollywood e di Los Angeles la capitale mondiale del cinema. Lei era una delle tante ragazze che erano state attratte verso la Mecca del Cinema dalla propria cinefilia e dalla propria ingenuità, per ritrovarsi poi ai margini del grande sogno. Disilluse, ed abusate dalla propria vita prima ancora che dai colleghi di lavoro.
Nessuno ha mai saputo con certezza chi fosse il padre della piccola Norma Jeane. Se quel John Newton Baker con cui era stata sposata giovanissima e da cui aveva già avuto due figli, Robert Jasper e Berenice Inez Gladys jr., o quell’Edward Mortenson, immigrato norvegese di professione fornaio con cui era convolata a seconde nozze. Nozze peraltro già naufragate al momento in cui Gladys Pearl era rimasta incinta di Norma Jeane.
Più probabile che il padre naturale fosse un tal Charles Stanley Gifford, addetto alle vendite della Consolidated Film Industries, con cui Gladys aveva avuto una relazione, peraltro bruscamente interrotta dall’annuncio della gravidanza.
Gladys Pearl aveva avuto due mariti, ma nessuno che le fosse stato accanto al momento di partorire la piccola Norma Jeane. Era anzi riuscita a permettersi il ricovero in clinica soltanto grazie ad una colletta tra colleghi.  Un altro lato oscuro del sogno americano, già a quei tempi. La donna peraltro aveva fama di essere mentalmente instabile, incapace di mantenere relazioni e di occuparsi dei figli.
Norma Jeane fu registrata come Mortenson all’anagrafe di Los Angeles, il 5 giugno 1926. Fu battezzata come Baker pochi mesi dopo la nascita.  La madre non sapeva attribuirle un padre con certezza, anche se cercava di darle comunque uno status di legittimità.
L’unica cosa certa era il nome di battesimo: Norma in onore in onore di Norma Talmadge, Jeane in onore di Jean Harlow (la e finale fu un’aggiunta dell’impiegato dell’anagrafe, uno dei consueti errori di registrazione). La sua mamma non aveva idea di come vivere la propria vita senza passare da un errore all’altro, ma da cinefila i film di successo li aveva visti tutti.
Al pari dello stato civile, Gladys non fu in grado di assicurare alla piccola Norma Jeane un’infanzia felice, o perlomeno normale. Dichiarata ben presto sofferente di schizofrenia paranoide e pertanto incapace di intendere e di volere, costrinse di fatto la figlia a soggiornare presso varie famiglie affidatarie e tutori legali, alternati con lunghi periodi in orfanotrofio. Scarsa affettività e addirittura maltrattamenti furono un minimo comune denominatore di quei soggiorni. Le prime molestie sessuali Norma Jeane le subì all’età di nove anni. Il primo stipendio (cinque centesimi di dollaro al mese come vivandiera) se lo guadagnò in orfanotrofio all’età di dodici anni.
Il primo marito l’ebbe a sedici anni. James Dougherty era figlio di un vicino della sua tutrice Grace McKee, archivista di pellicole alla Columbia Pictures e quanto di più vicino ad una migliore amica che avesse avuto sua madre. Fu un matrimonio di convenienza, che evitò a Norma Jeane il ritorno in orfanotrofio.
Il marito uscì ben presto dall’orizzonte della sua vita, così come erano usciti padri e madre. Nell’America in guerra, Norma Jeane si ritrovò a fare l’operaia in una fabbrica che produceva paracadute. Lì fu notata da un fotografo della rivista Yank recatosi al suo stabilimento per fotografare ragazze che tenessero su il morale delle truppe al fronte. Quel fotografo cambiò il suo destino, e senza saperlo avviò una delle più straordinarie carriere cinematografiche di tutti i tempi.
Da essere eletta Miss Lanciafiamme 1945 a essere dopo appena un anno già una delle promesse di Hollywood il passo fu brevissimo. Chiamata alla 20th Century Fox per un provino, fece un’ottima impressione al regista Ben Lyon, che la paragonò nei commenti a quella mitica Jean Harlow in onore di cui era stata battezzata. Lo stesso Lyon le suggerì tuttavia di trovarsi un nome d’arte.
Mater semper certa. L’unico punto fermo della sua vita nel bene e nel male era stata lei, la povera Gladys che l’aveva messa al mondo. Il suo cognome era deciso, per il nome serviva qualcosa che producesse insieme una piacevole e, perché no, sensuale assonanza. Marilyn Miller era stata un’altra icona del cinema americano dei primordi. Un archetipo a cui rifarsi, per la giovane Norma Jeane. Il dado più leggendario della storia del cinema era tratto. Il mondo l’avrebbe conosciuta come Marilyn Monroe.
La storia successiva è una delle più note, anche a distanza di cinquant’anni dalla scomparsa di questa donna-bambina capace di una presenza scenica e di un carisma che nessuna diva del cinema ha più saputo eguagliare. Questa donna incompresa che non riuscì mai a liberarsi del tutto di traumi ed insicurezze accumulati nei primi soffertissimi anni di vita, e che non fu mai fortunata nella scelta degli uomini che accompagnarono la sua vita adulta, dal critico letterario Robert Slazer, all’esuberante e ottusa icona del baseball statunitense Joe DiMaggio all’ingombrante drammaturgo newyorchese di origine ebraica Arthur Miller, che scrisse per lei il copione del suo ultimo film, Gli Spostati, ma che non seppe mai renderla felice o farla sentire veramente amata. Tra i relitti di quest’ultimo matrimonio, due soffertissime gravidanze interrotte da altrettanti aborti.
Da quella foto nuda che Tom Kelley le scattò  il 27 maggio 1949 per il calendario Miss Golden Dreams (e che era destinata ad inaugurare nientemeno che il primo numero storico della rivista Playboy di Hugh Hefner) a quella telefonata che nelle prime ore della notte del 5 agosto 1962 una disperata Eunice Murray, governante dell’attrice, fece al suo psichiatra Ralph Greenson per avvertirlo che non riusciva ad entrare nella sua camera da letto, la vita di Marilyn Monroe è una delle biografie più conosciute di sempre da tutte le generazioni ed a tutte le latitudini.
Marilyn, che soffriva di crisi depressive, fu dichiarata morta per probabile suicidio. Quando la porta della sua camera fu forzata, lei era a letto, nuda come nella foto che aveva avviato la sua carriera, ma senza vita e con ancora la cornetta del telefono in mano. Poche ore prima aveva dichiarato allo stesso Greenson di non essere mai stata meglio e di essere di ottimo umore.
Sulla sua morte circolano da quella notte tante storie e leggende. Almeno quante ne sono circolate sulla morte di colui che fu accreditato di essere il suo più celebre amante, John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, che le sopravvisse di soli quindici mesi.
Norma Jeane Baker, in arte Marilyn Monroe, avrebbe voluto che le sue ceneri fossero disperse in mare. Ma la vita che le aveva concesso tutto sulla ribalta dello star system hollywoodiano non era destinata ad esaudirla mai sul piano dei sentimenti più profondi. Riposa al Westwood Village Memorial Park Cemetery, l’ultima location scelta per lei dall’ex marito Joe DiMaggio, uno dei tanti che diceva di averla amata perdutamente, e che in realtà di lei non aveva mai capito niente.


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