Con la vittoria di domenica all’Estade Roland Garros, Novak Djokovic è entrato nella storia dei grandi del tennis, e ha due match ball
per entrare addirittura nella leggenda, nel corso di questo che sembra
essere decisamente il suo anno. Dopo quattro set combattutissimi contro
lo scozzese Andy Murray, è a lui che Adriano Panatta, ospite speciale per l’occasione, ha consegnato quella Coppa dei Moschettieri che lui stesso – ultimo italiano a riuscirci – vinse su questo campo quarant’anni fa.
A
quell’epoca, la Serbia era parte della Confederazione di Jugoslavia,
aveva diversi ottimi tennisti, ma nessuno che potesse aspirare a
diventare il numero uno di questo sport. C’è riuscito, dopo quasi mezzo
secolo ed un lungo apprendistato dietro altri due mostri sacri come Roger Federer e Rafael Nadal, Novak Djokovic detto Nole, serbo atipico di Belgrado, dotato di talento sui tennis courts quanto simpatico fuori di essi.
Il vincitore del 1976 Adriano Panatta |
E’ il diciottesimo major tournament che il ragazzo allenato dall’ex campione Boris Becker mette in fila. I suoi numeri sono importanti, ma più importanti ancora lo diventerebbero se ai prossimi tornei di Wimbledon e Flushing Meadows arrivassero le sue vittorie numero 19 e 20. Tutte in questo anno solare.
Si chiama Grand Slam, è una espressione mutuata dal bridge. Con le carte, si verifica allorché un giocatore riesce a realizzare tutte e tredici le prese ai danni dell’avversario. La trasposizione dello Slam nel tennis avvenne nel 1933, in piena età pionieristica di questo sport.
L’australiano Jack Crawford aveva già vinto tre dei quattro tornei più importanti in quell’anno solare, gli Australian Open, Roland Garros e Wimbledon. Si apprestava a scendere in campo nel quarto e ultimo, a Forest Hills,
sede degli U.S. Open fino al 1977, anno in cui fu soppiantata da
Flushing Meadows. A quell’epoca, i padroni del tennis erano i paesi che
l’avevano inventato (almeno nella versione moderna), e che avevano vinto
almeno una volta la Coppa Davis, quello strano torneo a
squadre che si disputava annualmente nell’ambito dello sport più
individualista che esista, e che fino al 1974 era stato appannaggio
appunto esclusivamente di U.S.A., Gran Bretagna, Francia ed Australia. I
championship di questi paesi erano per forza di cose i tornei più ambiti, e lo sono rimasti anche in epoca moderna.
Il giornalista del New York Times Jack Kieran scrisse «Se Crawford vince, sarebbe come segnare un grande slam nel bridge».
Il Grande Slam della racchetta nacque così. Per inciso, Crawford arrivò
ad un passo dal battezzarlo subito personalmente. Conduceva la finale
contro l’inglese Fred Perry per due set a zero, prima di crollare di schianto e perdere addirittura il quinto e decisivo set a zero.
Panatta premia Djokovic |
Per assistere all’impresa di un tennista che realizza lo Slam, si dovette attendere fino al 1938. John Donald Don Budge era americano di Oakland, ma figlio di immigrati scozzesi. Se suo padre John sr.
non avesse subito un grave infortunio come calciatore professionista
dei Glasgow Rangers e non fosse stato costretto a trasferirsi negli States
per curare i gravi postumi di quell’infortunio, il primo Grand Slam
sarebbe stato dunque realizzato da un britannico, e non da uno yankee.
A quei tempi, i tennisti ammessi ai championship
erano rigorosamente dilettanti. Come tale, il figlio del calciatore
scozzese realizzò un’impresa mettendoli in fila tutti e quattro,
entrando quindi nella leggenda ma guadagnandoci (almeno ufficialmente)
assai poco.
Per avere la prima lady capace di tanto, invece, bisognò attendere il 1953. Maureen Catherine Connolly Baker
era anch’essa americana, californiana di San Diego. Di famiglia non
agiata, aveva ripiegato dalla costosa ippica al tennis, allora più alla
portata di tutti almeno negli U.S.A. A 14 anni era già un fenomeno, a 19
aveva già realizzato l’impresa che la maggior parte delle sue colleghe
della sua generazione e delle successive avrebbe potuto soltanto
sognare. E lo fece perdendo un solo set in tutti e quattro i tornei. La
vita le tolse poi quello che le aveva concesso lo sport: a 34 scomparve
prematuramente, essendosi ammalata di cancro.
Rodney George Rod Laver, Rockhampton rocket
(il razzo di Rockhampton), sembrava uno dei tanti campioni che il
tennis australiano sfornava in quantità industriale fino agli anni
sessanta. Nel 1962, divenne chiaro che era il più grande. Allora, tre
dei quattro major si disputavano sull’erba, e uno solo (Parigi)
sulla terra. Lui era il numero uno su tutte le superfici e lo rimase
per sette anni. Il 1962 fu anche l’ultimo suo anno da dilettante. In
quel periodo la nascente A.T.P. il sindacato dei
tennisti, si stava battendo per il riconoscimento del professionismo nel
tennis. La battaglia fu lunga, e fu vinta solo nel 1969. A Rod Laver,
che aveva scelto il professionismo subito dopo lo Slam venendo di
conseguenza bandito dai tornei più importanti, essa costò gli anni
migliori di carriera, e chissà quanti altri titoli da aggiungere agli
oltre 200 comunque vinti. Tornò, come Muhammad Alì, sette anni dopo, nel 1969. Come Muhammad Alì, era ancora il più grande. E mise a segno un altro Slam, questa volta da professionista.
Rod laver |
Dopo di allora, nessun uomo è più riuscito nell’impresa. Ecco perché i match ball a disposizione di Nole
Djokovic hanno una importanza così fondamentale. Quanti suoi colleghi
sono arrivati ad un passo dall’impresa, senza riuscirci…. Da Bjorn Borg, fermato in finale degli U.S. Open da Jimmy Connors nel 1978, a John McEnroe, capace di perdere contro Ivan Lendl in finale a Parigi nel 1984 lo stesso match che Crawford aveva perduto da Perry nel 1933, troppo self confident. A Sampras, ad Agassi, a Federer, a Nadal. Tutti caduti sull’ultimo ostacolo.
E le donne? Attendono da meno tempo. Nel 1970 Margaret Court Smith
rispose a Rod Laver con il secondo Slam femminile. Australiana di
Albury nel Nuovo Galles del Sud, capace di vincere ancor più titoli in
assoluto del suo connazionale maschio, compì l’impresa nell’anno rimasto
famoso per l’introduzione nel tennis del tie-break che
accorciava le partite, oltre che definitivamente del professionismo. E
andò vicina a ripeterla l’anno successivo, fermata solo nella finale di
Wimbledon dalla connazionale Yvonne Goolagong Cawley. Da notare, Margaret giocò quella finale in stato interessante, incinta di un mese circa del primo figlio Daniel.
Stefanie Graf |
Poi più nulla, malgrado fossero gli anni di Chris Evert e di Martina Navratilova. Fino all’88. Fino all’unica europea capace di entrare in questa Hall of Fame tutta particolare. E di entrarci in un modo del tutto speciale. Steffi Graf
mise in fila tornei ed avversari come un rullo compressore, quell’anno.
Mettendo fine all’epopea del lungo duello e predominio della coppia
Evert/Navratilova. E siccome in quell’anno il tennis divenne anche sport
olimpico, con la vittoria a Seul Steffi divenne l’unica fino a questo
momento realizzatrice del Golden Grand Slam. Lo Slam impreziosito dalla medaglia d’oro olimpica. Nel 1993, dopo l’intermezzo di Monica Seles
interrotto dal famoso attentato di Amburgo, Steffi ritornò la numero
uno, ma riuscì a realizzare solo tre quarti di Slam, mancando
l’Australia.
Da allora, nessuno più. Tra gli uomini, Federer, Nadal e adesso Djokovic hanno realizzato il Career Grand Slam, i quattro tornei vinti in successione ma non nello stesso anno solare. Tra le donne, Serena Williams e Maria Sharapova.
Tra pochi giorni, sul Centre Court di Wimbledon Nole
serve il primo match ball per la leggenda del tennis. Il secondo ai
primi di settembre a Flushing Meadows. E’ davvero il suo anno? Lui è
convinto di sì.
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