Stanotte il
suo cuore si è fermato per sempre, dopo una battaglia durata trent’anni.
L’ultimo match della nostra vita siamo destinati a perderlo tutti, campioni o
non campioni. L’importante, almeno in questo caso, non è il risultato –
scontato – ma come si è combattuto.
Cassius
Marcellus Clay Muhammad Alì ha combattuto per tutta la sua
di vite, contro tutto e contro tutti, con un solo alleato: la sua razza, alla
quale sentiva di dover devolvere tutti i doni che gli erano stati offerti dalla
sorte. Il razzismo, i più forti campioni della boxe alla fine avevano dovuto
chinare la testa davanti a lui, peso massimo atipico che volava come
una farfalla e pungeva come un’ape. Cittadino americano atipico, capace di
dichiarare pubblicamente in piena guerra del Vietnam che i vietcong non
gli avevano fatto nulla, nessuno di loro lo aveva mai chiamato negro, i
bianchi del suo paese sì.
La mia
generazione l’ha idolatrato più che amato. Non era un personaggio facile,
Muhammad Alì. Non si rendeva simpatico alla gente. Ma lui non voleva essere
simpatico. Lui voleva essere il più grande. E per noi lo era,
esempio più unico che raro di fuoriclasse sportivo che era riuscito a farsi
rispettare ancora di più come uomo, per le sue prese di posizione e per il
coraggio con cui le aveva difese.
L’ultimo
avversario della sua vita era di quelli che, almeno per ora, non possono essere
sconfitti da essere umano. Nemmeno dal più grande. Il morbo di
Parkinson è uno dei mali del secolo. Affligge tante persone, per cause
ancora ignote. Per quanto leggera a volare, anche una farfalla si prende pugni
in testa. Alì ne aveva presi, e avevano aperto la strada al morbo.
Dai Giochi
Olimpici di Atlanta 1996, in occasione dei quali avevamo potuto
verificare l’insorgere del morbo e i danni che gli stava producendo, a quelli
di Londra 2012, non si era mai tirato indietro continuando a
mostrare il suo coraggio e la sua faccia in pubblico, con la fiaccola olimpica
saldamente in mano. Proprio a Londra, l’immagine più toccante della cerimonia
di apertura l’aveva fornita lui. Come tante altre volte. Insieme a Paul
McCartney, ci aveva ricordato da dove veniamo veramente, più di ogni pur
suggestiva scenografia.
La medaglia d'oro di Roma 1960 Cassius Marcellus Clay |
Una volta di
più, l’ex ragazzo di Louisville, profondo sud americano, che cambiò nome per
rifiutare quello cristiano impostogli da schiavo abbracciando
così la dottrina dei Musulmani Neri di Malcom X,
aveva offerto a tutto il mondo la consueta immagine di forza e di coraggio. Non
c’è più dubbio ormai, anche per le generazioni più giovani. Lui era veramente il
più grande.
Il ragazzo
che vinse l’Oro Olimpico a Roma nel 1960 non aveva mai accettato di integrarsi
nel sistema, a costo di diventarne una delle star strapagate e senza coscienza.
Se doveva essere un testimonial, scelse di esserlo per il suo popolo, i neri di
tutto il mondo, in lotta per la parità dei diritti e la fine della segregazione
razziale.
Non appena
acquistò coscienza di sé e del suo posto nel mondo, il giovane Cassius Clay
gettò nel torrente vicino casa sua la medaglia d’oro insieme al nome datogli
dai suoi genitori. E più o meno all’epoca in cui diventò campione del mondo
battendo Sonny Liston, nero anche lui ma completamente diverso e in quel
sistema perfettamente integrato, scelse di chiamarsi Mohamed Ali e di
mettersi contro il suo paese, gli Stati Uniti d’America.
Erano gli
anni in cui i Governatori negli Stati del Sud non si facevano scrupolo di
ordinare alla Guardia Nazionale di aprire il fuoco sulle marce per i diritti
civili. Alì avrebbe potuto godersi tranquillamente la sua carriera di campione
del mondo, come tanti prima e dopo di lui, e invece sfruttò ogni apparizione
pubblica per battersi per la causa dei suoi fratelli colored. E
alla fine il sistema decise di vendicarsi.
1964: Sonny Liston K.O. Cassius Clay campione del mondo dei massimi |
Tra
l’omicidio di Malcom X e quello di Martin Luther King, Alì
ricevette la cartolina di chiamata alle armi. Era il momento in cui la Guerra
del Vietnam entrava nella sua fase calda. Gli U.S.A. passarono dalla
coscrizione volontaria a quella obbligatoria. Ci si presentava ad una
commissione di leva che sorteggiava gli arruolati tra tutti
quelli che venivano visitati e giudicati abili.
Facile
pensare che ad un campione di boxe qualche riguardo sarebbe stato usato, che il
sistema si sarebbe accontentato di fotografare il ribelle Ali in divisa
dell’esercito americano, a fare atto di sottomissione alla legge del suo paese,
rispedendolo poi a casa ridimensionato ma assolutamente in grado di godersi la
sua esistenza dorata. Ali invece capì che quello era un punto di non ritorno,
che il suo messaggio poteva essere fortificato solo da un gesto: il rifiuto
della divisa.
Non essendo
il paese in mobilitazione generale come nella Guerra Mondiale, non ci furono
conseguenze penali se non simboliche. Ma al campione fu tolto il suo titolo, e
per circa quattro anni gli fu negata la possibilità di riconquistarlo contro i
suoi successori. Ali poté continuare ad essere attivista dei diritti del suoi
popolo, anche perché il clima in America stava cambiando in senso favorevole ai
pacifisti e contro i razzisti. Ma perse gli anni migliori della sua carriera
sportiva. E tornare in cima fu durissimo.
1967, renitente alla leva |
Nel 1971
perse da Joe Frazier, poi da Ken Norton. Li batté
entrambi nelle rivincite, ma intanto la corona dei massimi era andata a George
Foreman. Soltanto nel 1974, sette anni dopo aver perso il titolo a
tavolino, a Mohamed Ali fu data la chance di riconquistarlo.
Il 30
ottobre di quell’anno, a Kinshasa, nel cuore dell’Africa Nera, in un match
epico Ali tornò campione del mondo. Il pubblico, non solo sul posto e non solo
di pelle nera, era in buona parte per lui, mentre abbatteva Foreman. I neri
congolesi gli gridavano Ali boumaye, Ali uccidilo,
perché per loro lui era il vero campione. L’altro, come Frazier, come Norton,
come tutti gli altri, era solo un burattino dei bianchi.
Nei quattro
anni successivi, sostenne combattimenti durissimi con gli avversari del momento,
per ribadire che il più grande era ancora lui. In particolare, fu tremendo lo
scontro con Shavers ed alle sue conseguenze in termini di
danni cerebrali molti fanno risalire la malattia di cui Ali avrebbe sofferto in
seguito.
Si ritirò
definitivamente nel 1980, quando ormai l’America era profondamente cambiata e
nessuno aveva più problemi a celebrare la sua leggenda. Adesso i neri d’America
non sono più segregati, e nemmeno quelli africani.
Dopo la
morte di Malcom X e Martin Luther King, Ali è stato il loro rappresentante più
famoso, insieme a Nelson Mandela. Lo si capì quando ad Atlanta 1996
fu chiamato a inaugurare le Olimpiadi a furor di popolo. Purtroppo, era già
evidente che il Morbo di Parkinson non gli avrebbe lasciato vivere una
vecchiaia felice. Come non era stata felice, per altri motivi, la sua
giovinezza.
Come Mandela
a Johannesburg nel 2010 in occasione dei primi mondiali di calcio africani,
a Londra Alì era apparso come un vecchio signore che ormai combatteva a
fatica una condizione fisica estrema. Eppure aveva voluto essere lì, un’altra
volta, affrontando quello che il destino gli metteva davanti, senza paura.
2012, a Londra con la fiaccola olimpica |
Ai tempi
d’oro, la sua mente era addirittura più veloce delle sue stesse braccia
appesantite dai guantoni. Il suo corpo se l’era portato via a poco a poco il
Parkinson, fino all’ultima crisi che stanotte gli ha tolto l’ultimo respiro. Ma
la sua mente c’è da giurare che c’è stata, eccome, fino all’ultimo. Perché il
Parkinson fa così. Ti lascia vivere i tuoi ultimi anni di vita dolorosamente,
ma appieno. Alì ha fatto in tempo a vedere il primo Presidente di colore della
storia degli Stati Uniti. Ma soprattutto ha visto la folla variopinta di atleti
e ragazzi di tutti i colori stringersi insieme l’uno all’altro per festeggiare
una nuova festa di sport e di vita. Ha mancato Rio de Janeiro per pochi mesi, ma
non ne aveva bisogno. Sapeva da tempo di aver vinto la sua battaglia, lui,
Muhammad Alì, il più grande.
Boumaye,
Ali. Addio campione. Sarai sempre il più grande, per il tempo a venire.
Nessun commento:
Posta un commento