«La nostra giustizia non
garantisce l'imparzialità dei giudici, calpesta troppo spesso il diritto alla
libertà dei cittadini, interviene nella vita politica e vuole eliminarmi perché
mi considera l'unico ostacolo che si frappone tra la sinistra e la presa del
potere. Tutto ciò fa dell'Italia, un tempo la culla del diritto, un paese e una
democrazia malate».
Con queste parole Silvio
Berlusconi ha sintetizzato il senso della manifestazione indetta dal PDL a
Brescia sabato scorso 11 maggio, inizialmente prevista a sostegno del locale
candidato Sindaco Adriano Paroli e inevitabilmente trasformata ancor prima di cominciare
in una pubblica dimostrazione contro il sistema giudiziario italiano da parte del
leader del Popolo delle Libertà e di chi si riconosce nelle sue posizioni
politiche e civili in quella che qualcuno ormai definisce la Guerra dei
Vent’Anni.
A far precipitare gli eventi la
sentenza di Corte d’Appello che la settimana scorsa ha condannato Silvio
Berlusconi a 4 anni e 5 mesi nel processo intentatogli per frode fiscale sui
diritti TV Mediaset. Prima ancora della requisitoria del P.M. Boccassini al
Processo Ruby (chiesti altri 6 anni di galera per Berlusconi e l’interdizione
perpetua dai pubblici uffici), il Processo Mediaset con i suoi esiti e le sue
implicazioni (e i suoi strascichi, perché ancora pende davanti alla Consulta il
suo annullamento per conflitto tra i poteri dello Stato) è stato sufficiente a
spaccare il paese in due.
E la frattura appare non solo di
quelle difficilmente sanabili, ma anche equamente e fedelmente rappresentata
nella compagine governativa, che forse non aveva, date le circostanze, la
riforma della giustizia nella sua agenda ma che sicuramente adesso dovrà
confrontarsi con un clima politico che proprio a causa della giustizia ha
finito di avvelenarsi e che grazie alle pulsioni latenti di guerra civile
mostrate dalle varie articolazioni della piazza potrebbe arrivare al
punto di rottura tra le sue due anime difficilmente conviventi.
Mentre i Ministri del Governo
Letta si ritirano a meditare in convento in perfetto stile Doroteo (non
volevamo morire DC, ma ci stiamo finalmente riuscendo), compreso il viepremier
Alfano che sabato era a Brescia a manifestare contro i giudici, la tempesta politica
si abbatte su un Paese sconvolto da tante cose, e per nulla rassicurato dalle
immagini che sono giunte proprio da Brescia. Una piazza che inneggia a
Berlusconi e le strade circostanti che invece lo contestano, il tutto – va
detto – rappresentato da una informazione giornalistica tra le peggiori di
sempre, servono a tante cose: a stendere un velo, anzi, una velina su
altre ben più importanti questioni sulle quali il Governo forse non ha la più
pallida idea di come intervenire, ma che decideranno, anche a breve, della
nostra stessa esistenza in vita; nonché a travolgere lo stesso dibattito sulla giustizia
e sulla sua necessità di essere riformata, perché tra le urla non si distingue
più niente, né le ragioni di chi come Berlusconi si professa innocente e fa
appello ad altri «tantissimi italiani che entrano ogni giorno nel tritacarne
infernale della giustizia», né quelle di chi invece lo vede da anni e ancor di
più adesso come il Colpevole dei Colpevoli, il nemico da abbattere, il Grande
Corruttore che ha avvelenato e per qualcuno distrutto la vita democratica di
questo paese.
In sostanza, quella parte della
riforma del nostro ordinamento giuridico che più di altre meriterebbe
riflessione e toni pacati, perché da essa dipende l’equilibrio dei poteri dello
Stato, la nostra libertà sostanziale, la nostra stessa vita, si avvicina ad
essere affrontata (perché non può più essere rinviata, su questo sono d’accordo
tutti, pur dandosele di santa ragione) in una temperie al calor bianco. Dal
palco, Berlusconi ha dapprima richiamato alla memoria le parole rivolte da Enzo
Tortora a coloro che lo giudicarono («Io sono innocente, e spero nel profondo
del mio cuore che lo siate anche voi»), e poi, tra le urla contrastanti, ha
declamato la sintesi della proposta di riforma del sistema giudiziario che intende
finalmente presentare dopo diverse legislature sprecate, «separazione della carriere
tra i magistrati che fanno le inchieste e quelli che giudicano [...] una vera
parità tra accusa e difesa. I pm devono avere per i giudici lo stesso rapporto
che hanno gli avvocati della difesa: devono prendere appuntamento, bussare col cappello
in mano, dare del lei e non del tu [...] ci batteremo per una responsabilità
civile dei magistrati».
Mentre nella concitazione
generale si perdono non soltanto le sue affermazioni ma anche quelle di chi ha
inteso stigmatizzare la sua presa di posizione (a cominciare dal Vicepresidente
del Consiglio Superiore della Magistratura che ha parlato di «giudici baluardo
della legalità, chi parla di pacificazione non appicchi incendi» per finire al
Presidente della Repubblica che ha dichiarato di sottoscrivere le sue parole
una per una), è indubbio che in attesa di una riforma che tutto il popolo
italiano, non soltanto quello di centrodestra, avverte ormai come
indispensabile si continuerà nel frattempo a «fare giustizia» in un clima di
bande contrapposte e di sfiducia popolare pressoché totale. Non c’è che dire,
la strada del Ministro Cancellieri è in salita che più di così non si può.
L’ultimo affondo di Berlusconi
alle cosiddette Toghe Rosse a Brescia è stato un guanto di sfida: «potete farmi
di tutto, ma non potete impedire a milioni di italiani di volermi alla testa
del PDL». E questo appare indiscutibile. Cosa ne sarà della giustizia e del
popolo in nome del quale viene amministrata, questa è ben altra questione.
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