«Certo che sono contento di
tornare a casa, qui si sta bene, è tutto molto bello ma si sta troppo chiusi,
non dico come in una prigione perché non è così, ma ci sono troppi
condizionamenti, si esce poco. A casa starò bene e passeggerò».
All’ultimo giorno della sua
presidenza, Giorgio Napolitano trova finalmente le parole giuste. Senza la
retorica che l’ha sempre contraddistinto, soprattutto da quando è inquilino del
Quirinale (il più longevo della storia repubblicana), è così che risponde alla
bambina che gli ha chiesto, con l’innocenza tipica della tenera età, se è
contento appunto di lasciare questo palazzone e di fare ritorno a casa sua.
E’ l’atto conclusivo del suo
settennato, diventato due anni fa un novennato per l’impossibilità conclamata
delle forze politiche di trovargli un successore. La manifestazione, “Una vita
da social”, che promuove nel cortile del palazzo presidenziale la campagna di
sensibilizzazione sull’uso distorto del web e raduna insieme agenti della
polizia di stato e studenti delle scuole, lo coglie finalmente con la guardia
abbassata. Oggi sarà di nuovo tempo di dichiarazioni ufficiali, allorché le
dimissioni promesse da tempo verranno formalizzate e avrà termine quella che
resterà sicuramente nella storia d’Italia come una delle Presidenze della Repubblica
più controverse.
Non è un caso che ad attendere il
prossimo senatore a vita e Presidente Emerito Giorgio Napolitano sia lo stesso
studio – a Palazzo Giustiniani – che fu di Oscar Luigi Scalfaro, un altro che
lasciò dietro di sé un paese sicuramente spaccato in due almeno per quanto
riguarda il giudizio da dare al suo operato. Anche se allora fu indubbiamente
più facile individuare e interpretare i due schieramenti. Erano gli anni della
fine della Prima Repubblica e della discesa in campo di Silvio Berlusconi, due
eventi ai quali Scalfaro si oppose fieramente, rendendo immediatamente
identificabili amici e nemici. Con Napolitano è stato tutto diverso.
L’ex rampollo di un partito che
alle origini e per lungo tempo si professò rivoluzionario ha chiuso la sua
carriera (almeno da un punto di vista istituzionale, gli auguriamo ovviamente ancora
lunga vita e prosperità) da paladino dell’establishment come pochi altri. E
proprio quell’establishment, dai politici agli addetti all’informazione di alto
bordo a quella parte della società civile meno toccata dalla crisi economica
(che ha quindi ancora “qualcosa da perdere”) lo ha sostenuto e difeso a spada
tratta in ogni sua azione, anche la più discutibile e discussa.
In testa a questo gruppo,
ovviamente, l’ultimo dei suoi Presidenti del Consiglio incaricati – staremmo per
dire “inventati” – gli rende omaggio con i consueti toni enfatici (anche per
lui) da Strasburgo dove si trova a chiudere il semestre italiano di presidenza
della UE. «Un grande Presidente, un grande parlamentare europeo, che continuerà
a far sentire la sua voce. Sarà un grande servitore del Paese anche come
senatore a vita», dice Matteo Renzi che di sicuro si aspetta da lui qualche
servizio immediato – absit iniuria verbis – già da domani allorché comincerà in
aula del Senato la votazione sull’Italicum, la legge di riforma del sistema
elettorale, o quello che ne resta.
E’ assai folto anche il gruppo di
quelli che invece salutano questo 14 gennaio 2015 come il giorno in cui sarà
forse possibile aprire un “nuovo corso”, avendo sofferto la Presidenza Napolitano
come un lungo periodo di stallo delle Istituzioni e della società civile. Tra
le varie articolazioni di cui si compone la Destra e in quell’universo
frastagliato che fa capo al Movimento Cinque Stelle sono ben pochi coloro che
brinderanno al Presidente uscente, se non per augurargli la miglior sorte in
ordine a quella vita privata alla quale ritorna.
Da quando nell’autunno 2011
Giorgio Napolitano decise di prendere in mano personalmente le sorti della Repubblica
(quasi un novello Cossiga ma di segno diametralmente opposto, in quanto il
presidente sardo non si rivelò un fautore dell’establishment ma bensì un
fattore di cambiamento anche brusco, un “picconatore” di esso) accogliendo l’accorato “appello dell’Europa”,
il paese si è oggettivamente diviso in due fazioni, quella che lo vedeva come
un salvatore della patria e quella che invece si chiedeva se questa patria da
lui non fosse stata in ultima analisi tradita, insieme alla Costituzione.
Nel 2011, il governo eletto dal
popolo di Silvio Berlusconi fu dimissionato dal Presidente Napolitano su
richiesta di una serie di soggetti politici nessuno dei quali era passato dal
vaglio delle urne italiane – da Sarkozy alla Merkel ai maggiorenti della
B.C.E., per limitarsi a quelli “pubblici” – e con la complicità di un
Parlamento in cui il Partito Democratico voleva tornare a vincere possibilmente
anche senza giocare (il perché si sarebbe poi visto nel 2013) e il Polo delle
Libertà aveva inteso l’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari in modo
del tutto originale. Mezza Europa era sconquassata dalla crisi politica
spacciata per economica scatenata dall’asse franco-tedesco e dalle lobby
finanziarie, ma quasi tutta ritornò a votare. Meno l’Italia, dove la riforma
costituzionale non era peraltro stata mai condotta a buon fine e dove quindi il
Presidente ebbe buon gioco ad interpretare a rovescio l’art. 88 della Carta
stessa, che prevedeva lo scioglimento delle Camere qualora fosse stato
impossibile addivenire alla formazione di una maggioranza.
La maggioranza, per quanto
sciagurata come la Monaca di Monza del Manzoni, c’era e rispose. Peccato che
non fosse quella votata dagli elettori, e che a nessuno dei costituzionalisti
accorsi a frotte al desco del Presidente venisse in mente di trarre la
conclusione più immediata: il ritorno al voto. Per certe cose, la Prima Repubblica
esisteva ancora, viva e vegeta. Se del caso, si poteva addirittura operare un
downgrade fino allo Statuto Albertino.
Per molti, il Presidente
Napolitano diventò Re Giorgio il giorno stesso in cui si cavò dal cilindro come
un prestigiatore la figura di Mario Monti, promosso da travet d’alto bordo a
salvatore della patria attaccata dallo spread. Qualcuno addirittura procedette
verso le conseguenze estreme andando a rispolverare il lavoro teatrale di Alan Bennett,
quella Pazzia di Re Giorgio che narrava le vicende del terzo sovrano di quel
nome della casa reale inglese Hannover, uno dei più disastrosi della storia britannica,
colui che provocò di fatto la Rivoluzione Americana. Ecco quindi che per
miracolo qualcun altro (i giuristi non sono mai mancati a Palazzo) andò a
rispolverare il vecchio reato di vilipendio al Capo dello Stato, un istituto
alquanto demodé che non si applicava più da tempo immemorabile, dopo che peraltro
alcuni Capi dello Stato avevano fatto del loro meglio per vilipendere se
stessi.
Dopo Monti, anche Letta e Renzi
hanno allungato la schiera dei Presidenti del Consiglio non eletti dal popolo,
con beneficio pressoché immutato per il popolo stesso. Non è più tempo di
spread, ma ancora l’Italia è una Repubblica a sovranità più limitata che mai. Non
c’è stato discorso in cui il Presidente, con la sua consueta retorica di stampo
risorgimentale, non abbia rimesso l’accento su questa Europa che chiede,
chiede, chiede. E sulla Costituzione che a suo dire avrebbe ispirato ogni suo atto,
anche il più insignificante. Nel 2013, una Costituzione già in seria difficoltà
permise la sua rielezione a furor di popolo, nel senso che la “Casta” non trovò
di meglio che chiedergli una proroga mentre fuori del Palazzo il popolo –
provato da due anni di cura Monti-Fornero - rumoreggiava assai.
Ai posteri l’ardua sentenza. Mentre
la Costituzione per molti motivi appare ormai una anziana genitrice in fin di
vita al cui capezzale si accaniscono presunti medici che non avrebbero
sfigurato nel Pinocchio di Collodi, il suo ultimo difensore sta consegnando in
queste ore le sue dimissioni, e come un novello Cincinnato aspira a tornare
alle sue passeggiate da privato cittadino.
Il toto-successione è già avviato
da tempo, i nomi che si fanno assai poco rassicuranti. Come successe all’anziana
plebea romana che benedisse Nerone al suo passaggio causando l’incredulità
dello stesso imperatore, il sollievo per la fine di un regno vissuto da tanti
come oscuro, incerto, disagevole ed a tratti anche opprimente è di gran lunga
mitigato dal timore che se ne possa aprire uno ancor più infausto.
Ci associamo agli auguri affinché
il cittadino Giorgio Napolitano, Presidente Emerito, possa ritrovare quella
privacy a cui agognava da tempo, a suo dire, e godersela il più a lungo
possibile. Al Paese che si lascia dietro abbiamo smesso da tempo di fare
auguri. Forse non se li merita nemmeno più.
Nessun commento:
Posta un commento