La frase è di quelle, lapidarie,
che da Giulio Cesare a Napoleone hanno, a dar retta ai libri di storia, deciso
inesorabilmente, brutalmente e bruscamente come lo sparo di un fucile i destini
di interi popoli: "Per i Paesi
dell'Eurozona è arrivato il momento di cedere sovranità all'Europa per quanto
riguarda le riforme strutturali".
Mario
Draghi non parla “a schiovere”, né per indole personale né per ruolo
istituzionale. Quando parla, annuncia la politica dell’Unione, decisa dall’unica istituzione europea realmente funzionante. “Vuolsi
così colà dove si puote”, la Banca Centrale Europea, con un rialzo di tassi,
una misura antiinflazione o anche l’invio di una semplice lettera (come
sappiamo bene noi italiani) può decidere la sorte di uno o più Stati membri,
riottosi o semplicemente neghittosi.
Il
principio è generale, è giunto il momento di passare ad una Unione politica che
superi i particolarismi e le inefficienze nazionali. Ma và da sé che per motivi
squisitamente di attualità i riflettori della B.C.E. siano puntati proprio sul
Belpaese. "Uno
dei componenti del basso Pil italiano è il basso livello degli investimenti
privati". Peggio, tutto è dovuto "all'incertezza sulle riforme, un
freno molto potente che scoraggia gli investimenti". E’ arcinoto che
l’Italia non attira più gli investimenti privati per l’arretratezza delle sue
strutture ed infrastrutture, nonché la farraginosità e assurdità delle sue
normative e delle sue procedure e burocrazie. E’ un fatto assodato, dice
Draghi, che "i Paesi che hanno fatto programmi convincenti di riforma
strutturale stanno andando meglio, molto meglio di quelli che non lo hanno
fatto o lo hanno fatto in maniera insufficiente".
L’Italia è una volta di più il “ventre molle” del continente,
la cartina di tornasole della sua crisi, il suo caso limite. L’italiano Mario
Draghi pensa al suo paese d’origine quando decreta la fine delle sovranità
nazionali. E passa una palla pesantissima alle istituzioni politiche
comunitarie, che dovranno riflettere sulle sue parole oltre che sulle proprie
scelte.
In giornata arrivano infatti due notizie che definiscono un
quadro se possibile ancora più drammatico rispetto a quello dipinto da Draghi.
Matteo Renzi ridimensiona le affermazioni del presidente della B.C.E., dicendo
che riguardano tutta l’Eurozona e non solo il suo paese. Già, ma Germania, Francia
o Gran Bretagna non hanno bisogno in questo momento di riforme costituzionali,
mentre l’Italia sì, e da quelle dipendono drammaticamente le riforme
successive. Se non si sbarazza di una partitocrazia parassitaria di cui il
Senato è solo la punta dell’iceberg, l’Italia non rinnova le sue norme, le sue
procedure, le sue burocrazie, le sue economie. E muore.
Il presidente Renzi fa orecchi da mercante, ma non può non
essere consapevole di essere sotto l’occhio delle telecamere comunitarie, con
la sua battaglia per la riforma istituzionale impantanata in quel Senato che
dovrebbe autoriformarsi, e che invece contratta una ritirata casa per casa,
privilegio per privilegio come i nazifascisti a Firenze nel 1944, in giorni
d’agosto molto più caldi di quello attuale. Vecchi arnesi della partitocrazia
come Vannino Chiti tengono in scacco il Rottamatore,
che non può non ostentare comunque ottimismo e nonchalance rispetto a tutto,
comprese le parole di Draghi, perché come sempre succede ai grandi riformatori
(o presunti tali), chi si ferma è perduto.
L’altra notizia è che la Russia di Putin reagisce alle
sanzioni pedissequamente applicatele dall’Unione Europea con l’embargo sui
prodotti agroalimentari comunitari, in attesa di presentare il conto
complessivo il 1° novembre, quando da Lisbona a Kiev, dal Manzanarre al Reno i
bravi cittadini europei andranno ad accendere come di consueto i riscaldamenti.
Per l’Italia è – dal giorno alla notte – un danno di 700 milioni di euro.
Tralasciando ogni considerazione su scelte politiche decise
laddove (leggasi Washington) problemi di approvvigionamento energetico non
sussistono, le cifre comunque parlano da sole. Saltano non solo i calcoli del
governo in carica circa le percentuali di crescita del Pil, ma probabilmente
salta anche il quadro politico se il presidente non porta a casa qualche
risultato reale. Qualcosa di più per esempio del baratto di 300 senatori con
non si sa bene quante migliaia di consulenti e dirigenti a contratto della
pubblica amministrazione, che costano al sistema poco meno e fanno altrettanto
danno.
Oggi è l’anniversario di Marcinelle, un nome sinistro che
gelava il sangue ai nostri nonni e ai nostri genitori, la più grande tragedia
dell’emigrazione italiana, il primo e a tutt’oggi più alto tributo richiesto
dall’Europa Unita (allora Comunità del Carbone e dell’Acciaio, era il 1956) ai
suoi cittadini lavoratori, 136 italiani e 95 belgi.
Quanta gente è morta per fare prima questo paese e poi questa
comunità europea! Pare brutto proprio oggi, proprio in questi giorni pensare
che si stava meglio quando si stava peggio. Che cento anni fa come adesso una
persona a Corte può decidere con un proclama della nostra sorte. E non è neanche
detto che sia la sorte peggiore.
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