Diceva Mao Tse Tung, “le donne
portano sulle loro spalle la metà del cielo e devono conquistarsela”. Dai tempi
del Grande Timoniere, grazie alle battaglie per le pari opportunità condotte
soprattutto dalla Sinistra (quando la Sinistra combatteva battaglie
progressiste), ne ha fatta di strada l’altra metà di questo cielo non sempre
limpido sotto cui viviamo.
Dagli anni immediatamente
successivi alla Seconda Guerra Mondiale in cui in Cina il Padre della
Rivoluzione stabiliva per legge che le donne potevano e dovevano fare tutto quello
che facevano gli uomini ed in Italia veniva concesso il diritto di voto per la
prima volta ai cittadini di sesso femminile, le donne hanno compiuto il
percorso più o meno completo che le ha portate in tutti i campi ad eguagliare
di diritto e di fatto gli uomini, ed in alcuni casi addirittura a
sopravanzarli. Al punto che ormai celebrazioni come quelle dell’8 marzo sono
vissute dalle donne stesse quasi con fastidio, come un pleonasmo anacronistico
e inutile a migliorare la condizione femminile dove ancora è arretrata oppure
meramente ed offensivamente retorico là dove invece essa ha raggiunto il
traguardo dell’effettiva parità dei diritti.
Come per qualsiasi categoria
sociale partita da posizioni di svantaggio, è nel campo della politica e
dell’amministrazione che si misura il grado di emancipazione. Le donne in
politica oggi sono molte, sia a sinistra che a destra. Le quote rosa ormai sono
rispettate, la quantità è assicurata. Per la qualità, il discorso è diverso. La
Seconda Repubblica ha ben poche figure la cui statura è comparabile con quelle
della pur bistrattata Prima, e le donne non fanno eccezione.
E se a destra la questione femminile si può
semplificare in alcuni stereotipi abbastanza omnicomprensivi (ognuno può
divertirsi a identificare a quale appartengono Carfagna, Santanché, De
Girolamo, Meloni), a sinistra la faccenda si fa più complessa. Sgombrando il
campo da archetipi quali Rosy Bindi e Anna Maria Finocchiaro, l’altra metà
della simpatia rispetto a un D’Alema o a un Bersani, ci sono tra le ultime leve
alcuni personaggi che vale la pena di esaminare, perché al peggio,
politicamente e anche socialmente, non c’è mai fine.
La sera del 22 aprile, mentre il
Partito Democratico scavava tra le macerie del dopo-elezione del Presidente
della Repubblica per cercare di recuperare qualcosa, la nouvelle vague del
centro-sinistra Debora Serracchiani festeggiava la sua fresca elezione a
Presidente della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia lamentando di
essere stata completamente abbandonata dal suo partito nel momento cruciale
della campagna elettorale, e di avere pertanto vinto da sola, anzi malgrado i
suoi compagni.
Pochi giorni dopo, sul Piccolo di
Trieste del 27 aprile compariva la notizia (mai smentita da nessuno
successivamente) che alla elezione della Serracchiani, risultata vincitrice per
2.000 voti scarsi sul candidato del centrodestra Renzo Tondo, hanno contribuito
in maniera evidentemente decisiva i 6.000 istriani (abitanti cioè di un territorio
non più appartenente all’Italia dal 1945, di etnia italiana, ma di nazionalità
jugoslava fin dai tempi del trattato di pace avendo essi optato in tal senso,
che hanno poi recuperato una cittadinanza italiana puramente formale con la
fine della Guerra Fredda e l’avvento dell’Unione Europea) che il PD è andato a
prendere oltre confine a poche ore dalla chiusura delle urne con appositi
pullman, affinché facessero pendere dalla sua parte un ago della bilancia dalle
oscillazioni estremamente incerte.
A parte l’interpretazione della
legge elettorale discutibile, poiché assimila a emigranti o figli di emigranti
persone che non hanno mai risieduto in Italia e che anzi alla fine degli anni
Quaranta scelsero la cittadinanza di un altro paese, salta agli occhi da parte
della Serracchiani un chiagnere e fottere (absit iniuria verbis) tipico
di altre latitudini nazionali. Per chi ricorda le sue lamentazioni in prima
serata tv, davvero un bell’esempio di coerenza, nonché di gratitudine e
solidarietà di partito.
Altra icona della Sinistra al
femminile in rapida ascesa, è la Presidente della Camera dei Deputati Laura
Boldrini, che esterna spesso e volentieri, a 360°, tanto da far concorrenza
allo stesso Presidente della Repubblica (al quale almeno però la Costituzione
conferisce formalmente tale potere). Così, la troviamo il 1° maggio a parlare
di problemi del lavoro a Portella delle Ginestre (luogo dove ogni anno si
commemora l’eccidio compiuto in pari data dagli uomini di Salvatore Giuliano
sui contadini che chiedevano la riforma agraria, nel 1947), lei che essendo
stata in tutti questi anni a giro per il mondo ovviamente conosce bene la
realtà dei lavoratori italiani. La ritroviamo poi il 28 aprile subito dopo l’attentato
di Prieti a Palazzo Chigi, ma in realtà a due poveri rappresentanti delle Forze
dell’Ordine che hanno l’ingrato compito di proteggere lei e i suoi colleghi quotidianamente,
in prima linea a stigmatizzare il clima di “violenza verbale” che si registra
nei confronti della classe politica.
Come a dire, queste sono le ovvie
conseguenze. E neanche una parola sulla violenza ai danni dei cittadini
attanagliati da una crisi spaventosa perpetrata da un Parlamento che, a tre
mesi dalla sua elezione, si è ben guardato ancora dal cominciare a funzionare
per quella che è la sua funzione legislativa e per la quale è lautamente
retribuito, eccezion fatta per alcuni provvedimenti importantissimi tra cui la concessione
dell’assistenza sanitaria gratuita ai conviventi gay dei parlamentari, oppure
la ratifica di una Convenzione firmata a Istanbul che stabilisce che la
violenza sulle donne va punita (come se non esistesse già un Codice Penale a
tal proposito).
Troviamo ancora la Presidente
della Camera, più volte, a ribadire il suo capolavoro di sensibilità politica,
l’affermazione che il problema principale della società italiana e la questione
più importante nell’agenda del nuovo governo è e non può essere altro che l’accoglienza
agli immigrati, regolari e non. Se non lo sa lei del resto, che è stata negli
ultimi 25 anni lontana dall’Italia, a lavorare presso le Nazioni Unite come
portavoce dell’Alto Commissario per i Rifugiati, chi può saperlo? Il suo è
stato sicuramente un osservatorio decisamente privilegiato. Su cosa, quello è
un altro discorso.
Ma è soprattutto una l’iniziativa
per la quale la Presidente Boldrini si è distinta dal giorno in cui il suo nome
è stato estratto dal cilindro del Partito Democratico per andare a sedersi
sullo scranno più alto di Montecitorio: l’allestimento di una squadra speciale
della Polizia Postale con il compito di scandagliare quotidianamente il web in
cerca di qualsiasi cosa che possa essere ravvisata come offesa alla terza
carica dello Stato. Cioè alla sua persona. Ora, a parte che la suddetta Polizia
Postale, all’epoca del boom di Internet, svolge già istituzionalmente
una mole di lavoro impressionante e forse non aveva – in questi tempi di magra
(leggasi spending review) - bisogno che le venisse aggravato il carico di
lavoro, la creazione di questo reparto speciale con compiti di censura ha
inoltre qualcosa di sinistro, e ricorda molto l’atteggiamento verso il nuovo
strumento di comunicazione sociale e di informazione digitale assunto da anni
dalla Repubblica Popolare Cinese (tanto per ritornare al Grande Timoniere).
Le false foto naturiste della
Presidente della camera sono state prese infatti a pretesto per una campagna
censoria quale in Italia, va detto, non si vedeva più dagli anni 50. Viene da
chiedersi cosa sarebbe successo a un Giorgio Forattini se il compianto senatore
Giovanni Spadolini (per dirne uno) avesse ragionato come la signora in
questione. Viene anche da chiedersi cosa succederà ad Internet ed alla libertà
di espressione, visto che subito la cosiddetta Casta si è schierata compatta,
Presidente della Repubblica in testa, dalla parte dell’iniziativa poliziesca
della Presidente di Montecitorio. Che ha tenuto a ribadire in varie circostanze
che il suo intento è solo quello di combattere i commenti sessisti e violenti.
Una categoria, come si vede, talmente labile da gettare un’ombra inquietante
sulla libertà di parola in questo paese.
In una di queste circostanze, tra
l’altro, ha avuto una sponda più realista del re nella giornalista Concita De
Gregorio, altra icona del progressismo rosa, che l’ha intervistata per Repubblica.
La De Gregorio non si è fatta scrupolo di parlare di “campagna contro Laura
Boldrini”, dipingendo un quadro in cui la signora avrebbe ricevuto più minacce
di morte del Presidente John Fitzgerald Kennedy prima del suo viaggio fatale a
Dallas, e in cui sarebbe sottoposta quotidianamente a ricevere quantità enormi
di messaggi contenenti insulti e minacce varie, i cosiddetti commenti sessisti.
“La magistratura è avvertita, le denunce sono partite (…) La politica deve
essere coraggiosa, deve agire”. Se queste parole le avesse dette un esponente
del centrodestra, senza fare nomi, si sarebbero aperte le cateratte del cielo.
Qui, invece, si aggiorna la già problematica agenda del governo, e tutti zitti.
A proposito di agenda, tra le
novità introdotte dal Presidente del Consiglio Enrico Letta con la sua compagine governativa e tra le
icone emergenti del panorama politico femminile di sinistra troviamo l’attuale Ministro
per l’Integrazione (Boldrini chiama, Letta risponde) Cécile Kyenge. La Kyenge, originaria
della Repubblica Democratica del Congo, giunta in Italia come immigrata
clandestina (poi regolarizzata) nei primi anni 80 e diventata cittadina
italiana nei primi anni 90 a seguito di matrimonio con un italiano, dai primi
anni 2000 attivista del Partito Democratico che l’ha candidata alle ultime
elezioni, aveva appena giurato nelle mani di Napolitano che un attimo dopo ha
pensato bene di uscire con la dichiarazione senza mezzi termini di voler
concedere la cittadinanza a tutti gli immigrati presenti sul suolo italiano, a
prescindere dalla loro posizione nei confronti della legge. E ciò in virtù, nientepopodimeno,
della riforma di un principio cardine dell’ordinamento giuridico italiano, fin
dal tempo del suo predecessore illustre, l’Impero Romano: lo jus sanguinis.
Com’è noto, due sono i principi
giuridici in virtù dei quali avviene nel mondo moderno la acquisizione della
cittadinanza. Lo jus sanguinis consiste nella sua acquisizione per
nascita da cittadini, o per matrimonio con cittadini; è il principio in vigore
in Italia, ed in molti paesi latini. Dovunque si nasca, si è italiani se si
nasce da italiani, o lo si diventa se (come è successo alla Kyenge) si sposa un
italiano/a. L’altro principio è lo jus soli, la cittadinanza si acquista in
base al suolo su cui si nasce, o alla permanenza su quel suolo per un certo
numero di anni ed a certe condizioni; è il caso dei paesi anglosassoni, Gran
Bretagna e Stati Uniti, e della Francia.
Ora, a parte il fatto che la
questione investe altre problematiche alla base della attuale situazione
economica e sociale italiana (siamo un paese di 60 milioni di abitanti censiti
e con almeno 8 milioni di immigrati registrati, più tutti quelli irregolari, e
che sta attraversando una crisi economica epocale), sarebbe il caso magari che
come metodologia applicata alla politica in un paese cosiddetto democratico
essa fosse oggetto di consultazione popolare, dato che va a toccare appunto un
principio cardine dell’ordinamento.
La Kyenge, invece, dimostra di
essersi perfettamente integrata nella mentalità del suo partito quando comunica
alla platea dei sudditi il suo intento indiscutibile, anziché interpellare dei cittadini
sull’opportunità della sua proposta. Che se fosse approvata tra l’altro avrebbe
le conseguenze devastanti facilmente immaginabili, chiunque potrebbe venire a
partorire un figlio in Italia (salvo poi andarsene subito) e prendere così la
cittadinanza per il figlio, da estendere magari successivamente a tutta la
famiglia (cosa vogliamo fare, separarli?). Tutto ciò nel contesto di un paese
la cui solidità istituzionale, politica e sociale non è neanche lontanamente
paragonabile a quella degli U.S.A., della Gran Bretagna o della Francia, da
secoli abituati a concedere l’integrazione agli immigrati sulla base di un
rigido sistema di diritti e doveri inderogabile.
Come diceva il Grande Timoniere,
le donne portano sulle spalle l’altra metà del cielo. Queste sono alcune delle
donne che – dispiace dirlo – ci portiamo sulle spalle noi.
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