Le sciocchezze in Italia sono
come le valanghe. Una volta che hanno preso il via, diventano inarrestabili.
Quando poi se ne impadronisce la politica e ne fa altrettante parole d’ordine,
diventano addirittura devastanti. Non sono passati molti anni da quando a
Sabino Cassese prima e a Franco Bassanini poi fu consentito di rovinare
irreparabilmente in questo paese una pubblica amministrazione che, pur non
avendo mai raggiunto livelli di eccellenza pari a quelli del Civil Service britannico
o americano o dell’Ecole Nationale d’administration francese, aveva
funzionato discretamente dai tempi di Napoleone fino ai giorni nostri.
Una sinistra come sempre
sprovvista di cultura di governo, in due momenti in cui il governo del paese
cadde – è il caso di dire – nelle sue mani, acconsentì di buon grado a
trasformare mode e tormentoni del momento in principi riformatori che, nelle
mani dei professori dell’epoca, gente che non aveva lavorato
nell’amministrazione per cinque minuti della sua vita ma che pretendeva di
conoscerla bene, divennero qualcosa paragonabile all’Angelo Sterminatore del
Vecchio Testamento.
L’amministrativista (termine già
di per sé orrendo) Cassese codificò il nefasto principio dell’introduzione del diritto
privato nella pubblica amministrazione. Da allora dirigenti e funzionari delle
varie P.A. italiane sono nominati dai politici con contratti (onerosi per
l'erario) di diritto privato, e pertanto sono legati mani e piedi alla volontà
di questi contraenti. Bassanini completò l’opera pochi anni più tardi,
introducendo la separazione (fittizia) tra politica ed amministrazione e la deregulation.
Con la prima, si fece finta di tracciare dei confini tra le varie
responsabilità: il politico fa le scelte strategiche, il funzionario adotta gli
atti necessari ad attuarle, nel rispetto delle leggi. Niente di più falso, se
chi deve attuare può essere licenziato dalla sera alla mattina, costui
osserverà la volontà del padrone e non la lettera della legge. Con la seconda,
una serie di previsioni normative furono declassate da previsioni di legge a
previsioni di atti amministrativi, e come tali sanzionabili in caso di
infrazione in maniera molto più leggera. Che poi, con buona pace di Bassanini e
di chi ne cantò le gesta, era l’unica cosa che interessava ad una classe
politica preoccupata di non veder ripetersi mai più Tangentopoli (nella
persecuzione, ovviamente, non nella prassi).
Da queste improvvide riforme, a
cui venne poi ad aggiungersi un Titolo V riformato in fretta e furia la sera
prima della fine della legislatura per non lasciare in mano niente alla destra
che avrebbe governato quella successiva e un federalismo ciarlatano e cialtrone
che la destra stessa provò ad attuare in ossequio alle promesse fatte a una
parte della sua base, quella leghista, la pubblica amministrazione italiana ne
è uscita distrutta.
Franco Bassanini |
Arrivando ai giorni nostri, in un
momento in cui la crisi economica da un lato e di fiducia nelle istituzioni
dall’altro morde le caviglie ai cittadini come mai prima forse nella nostra bicentenaria
storia di popolo, un governo che questo popolo non ha eletto ma che è stato
incaricato dal capo dello stato allo stesso modo di come accadde esattamente
novanta anni fa negli stessi giorni (con la differenza che allora la
costituzione vigente – lo Statuto Albertino – lo consentiva, mentre adesso no)
non ha trovato di meglio che lanciare una nuova parola d’ordine, e come sempre
succede nei periodi di crisi individuare un nuovo nemico. Questa volta non
etnico o religioso, ma sociale. Lo si può leggere perfino su testate che una
volta giustamente avevano la pretesa di essere prestigiose. Il Corriere
della Sera, Repubblica, non passano giorno senza lanciare il
messaggio al popolo affamato che il suo nemico sono i dipendenti pubblici. Che
la pubblica amministrazione è una “erogatrice di stipendi, non di servizi”,
come si può sentir dire facendo zapping da un talk show all’altro, a
qualsiasi ora.
In altre parole, i tagli alla
spesa pubblica da fare non sono quelli che una neghittosa classe politica, come
l’orchestra del Titanic, si sta pervicacemente rifiutando e si rifiuterà di
operare (in danno di se stessa, evidentemente), nella speranza malcelata che
perfino i Fiorito presto o tardi torneranno a piede libero a godersi i proventi
dei loro (legali, si badi bene, in quanto consentiti o tollerati da norme in
vigore) approvvigionamenti finanziari. I tagli da fare sono gli stipendi dei
dipendenti. Quelli che fanno tanto rabbia perché hanno il posto fisso. Quelli
che stanno a sportello a prendersi quotidianamente la rabbia e gli insulti della
gente, dell’utenza, giustamente inferocita da una burocrazia che definire
borbonica è un oltraggio ai Borboni, ma che non riflette mai fino al punto di
capire che ciò che la fa inferocire ha sede più su, a piani più alti. Quelli
che magari a volte ti prendono in simpatia o compassione e aggirano regolamenti
bizantini per venirti incontro e “non farti ritornare”, ma a loro rischio e
pericolo, perché con la giustizia italiana se rubi milioni di euro te la cavi,
ma se sbagli una marca da bollo la tua vita è finita.
Ma qualcuno bisogna pur trovare,
gli ebrei non vanno più di moda, gli extracomunitari non è politicamente corretto,
e allora, dagli al pubblico dipendente! E dove lo vado a trovare, avrà pensato
il buon Monti, e con lui questo aulico consesso di menti accademiche applicate
alla vita reale? Chi addito al popolo come affamatore? Come approfittatore? I
Comuni non si toccano, esistono dal Medioevo e si sminestrano da sempre tutte
le rogne di cosiddetta amministrazione diretta, di utilità (si spera) per i
cittadini. Le Regioni sono, e rischiano di restare, gli unici feudi in cui
certa sinistra può sperare di comandare, e di fare il bello e cattivo tempo.
Restano le Province, anche se chi ha un minimo di istruzione sa che a toccarle
si va contro la storia, oltre che contro il buon senso.
Le Province le aveva inventate
Napoleone, che a differenza di tante altre figure pseudo-storiche succedutegli aveva
dimostrato di non essere proprio un cretino o un incapace. Dopo di lui
generazioni di governanti più o meno illuminati vi si erano appoggiati per
mandare avanti questa baracca non semplice di stato che ci ritroviamo. I
Prefetti, rappresentanti del Governo in sede locale, hanno avuto finora
incontestatamente base provinciale, et pour cause.
Non molti anni fa, un’altra delle
parole d’ordine uscite dall’immaginario di chi si è trovato ad amministrare senza
avere idea di cosa amministrava fu quella degli ambiti territoriali ottimali.
In sostanza, in un territorio in cui a parte le grandi città tutto era
amministrato da Comuni dal numero di abitanti irrisorio, si pensava (e forse
per una volta non completamente a torto) che tante materie potessero essere
gestite a livello più o meno provinciale con efficacia, dai rifiuti, all’acqua,
alla protezione civile, alle bonifiche, alle coste. Non appena il principio fu
codificato dalle prime leggi, una valanga di competenze fu rovesciata (spesso
senza le adeguate risorse economiche e di personale) dalle Regioni sulle
Province. Che da allora cercano, in sofferenza, di assolverle (si parla di
uffici e di lavoratori addetti, non di politici, sia chiaro).
Per stare alla Toscana, la realtà
che conosciamo meglio e che più ci interessa, che senso hanno le Province è chiaro
a chiunque conosca anche sommariamente un po’ della nostra storia sia antica
che moderna. Cosa vale peraltro la nostra classe politica lo si vede dai
commenti, oltre che dall’atteggiamento complessivo. Non c’è stato uno dei
politici locali che si sia alzato a criticare il decreto ammazza-Province, se
non al limite per aver sfavorito Tizio piuttosto che Caio. La Toscana esce con
le ossa rotte dal riassetto istituzionale operato da un governo che nessuno ha
eletto e che dio solo sa (ma ci si può immaginare) a chi risponde (a proposito,
ma le Province non erano organi a rilevanza costituzionale? E si possono
sopprimere così, per decreto?).
E facile immaginare cosa
succederà a Prato, che ritornerà a dipendere amministrativamente da Firenze. E’
altrettanto facile immaginare cosa succederà a un abitante di Massa che dovrà
andare a fare un foglio in Provincia arrivando fino a Pisa, o a uno di
Capalbio che dovrà risalire fino a Siena, o viceversa. Per non parlare di quell’ultimo
prodotto del genio umano (di cui una volta la Toscana era fucina) che è l’Area
Metropolitana. Non Londra, signori, non Parigi. Qui l’Area Metropolitana
comprende Marradi, San Godenzo, l’Abetone. Fanno tutti parte della Greater
Florence. Chiaro il concetto?
Qualcuno ha la pretesa di
continuare a dire che la Toscana va avanti tutta. Qualcun altro in sede nazionale
applaude alla vittoria del Movimento Cinque Stelle, senza riflettere su cosa e
soprattutto su chi sta vincendo. Nessuno che si sia alzato come
Fantozzi, che nel capolavoro di Paolo Villaggio, costretto ad assistere per motivi
aziendali alla proiezione della Corrazzata Potemkim, alla fine sbotta e
in un soprassalto di dignità grida: “Per me…..è una c……… pazzesca!”
Le sciocchezze in Italia sono
spesso devastanti e inarrestabili. Ma anche la furia della gente presa in giro
può esserlo. In questo paese non abbiamo mai fatto una rivoluzione, e questo è
il nostro limite storico come popolo. Ma a tutto c’è una prima volta e non è il
caso di fare troppi esperimenti.
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