mercoledì 27 agosto 2014

ULTIM'ORA: L'orsa Daniza scende in campo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Comunicato straordinario dell’orsa Daniza

Dopo attenta riflessione, ho deciso di scendere in campo (non per fare i bisogni, per quello mi apparto).
Ho deciso di fondare anch’io il mio movimento. E che sono, la più bischera?
Si chiamerà Movimento a Cinque Stalle, e cercherà di intercettare i consensi di tutti coloro che hanno delle pendenze con il Ministero per l’Ambiente. Cercherà inoltre di intercettare anche qualche merenda, perché qui la fame è tanta. Solidarietà ne ho avuta parecchia, discorsi anche, ma cestini con roba dentro zero.
Comunico di aver già raccolto le prime adesioni. La compagna MV25 mi ha fatto sapere dalla Valtellina che è stanca di nutrirsi di ciuchi, anche perché alla parola “equini” si è subito fatta viva Equitalia. Ambirebbe piuttosto ad un seggio in Parlamento, si mangia molto meglio e non ci sono né allevatori né burocrati a rompere i coglioni. Ho deciso di conferirle la tessera n. 0001 e di metterla in lista alle prime elezioni utili.
In serata ho ricevuto anche l’adesione dell’agricoltore Sulo, che dalla lontana Finlandia ha fatto sapere di essere disposto a candidarsi alle Europee e soprattutto mi ha mandato una cassa d’uva.
Grazie a lui, adesso il movimento ha anche il suo slogan:
VOTA SULO, E AL GOVERNO GLI VAI IN……..


A breve altre novità. Restate sintonizzati.


Alba a Cercina (poesia)

Quel vecchio bianco crinito
Che per le strade antiche e polverose
Dal colle natìo all’operosa città
Ogni mattina all’albeggiar dell’astro
Con la sua usata vettura
Che chiederebbe ormai sol meritato riposo
Fors’anche oblio
E che uso incontrar là dove il sentiero si fa più angusto
Ardua è la manovra e periglioso lo scambio
Mentre mi affanno verso il lavoro
E tiranno è il tempo


…….MA ‘NDOVE CAZZO VA???????


martedì 26 agosto 2014

Giù le mani dall'orsa Daniza

Sarà che ci ha rovinati Walt Disney, con la sua rappresentazione della natura così accattivante. Le storie del bosco erano tutte a lieto fine (oddio, a parte la mamma di Bambi e qualche altra cosuccia qua e là), gli animali grandi e piccoli erano così umani (ma del tipo umano migliore) da invogliare chiunque ad addentrarsi in una qualunque foresta senza precauzioni. Al massimo si sarebbe finiti in qualche storia tipo Libro della Giungla.
O forse ci ha rovinati la perdita di buonsenso universalmente codificata nella normativa di questo paese verso la fine del 20° secolo. Più o meno all’epoca in cui si decise tra l’altro di ripopolare le nostre foreste con orsi, lupi, cinghiali e altra fauna importata dai paesi dell’est, per esempio dalla vicina Slovenia. Salvo poi accorgersi che gli animali importati oltre al passaporto comunitario non avevano tutta una serie di buone maniere a cui Disney ci aveva abituato con i suoi cartoons. No, si erano portati le loro, pari pari come la Natura, quella vera, li aveva fatti.
Da piccoli ci dicevano a tutti: state attenti, quando si va in bosco bisogna essere attrezzati ed equipaggiati di tutto ciò che serve, a cominciare dall’intelligenza e dalla prudenza. E gli animali vanno lasciati stare, prima di tutto perché vanno lasciati tranquilli punto e basta, e poi perché è pericoloso.
A meno di non essere un cacciatore, e allora lì il discorso cambia. Diventa una questione di tifo. Chi scrive non ha dubbi, e anzi avrebbe da tempo distribuito le armi a ripetizione anche agli animali.
Per gli altri, valgono ancora – o dovrebbero valere – le raccomandazioni dei vecchi. Nel bosco ci si va ad occhi aperti, e se succede qualcosa la Natura ha sempre ragione. Gli intrusi siamo sempre e comunque noi, dal Paleolitico all’altro giorno, quando quel cretino che si è messo a cercare funghi in una zona popolata da orsi per poco non ne è divenuto il pasto.
L’uomo che cercava i funghi è andato a rompere le scatole ad un’orsa con i cuccioli, e stavolta non c’era il lieto fine scritto da Walt Disney. Se l’è cavata con graffi e spavento, e gli è andata anche troppo bene, più di quanto meritasse.
Ma per la legge (quella con la L maiuscola, la stessa che se ti entra un ladro in casa protegge il ladro dalla tua legittima difesa e mette in galera te, come un Pinocchio qualsiasi), la reproba è l’orsa Daniza. In un attimo, addio progetto di rinaturalizzazione Ursus Life (chissà quanti soldi, vero Unione Europea?), addio politically correct, auf wiedersen ambientalismo vero o presunto.
Perfino il Ministro per l’Ambiente Galletti ha autorizzato la caccia all’orso che si è scatenata per mano dell’Equitalia faunistica della Regione Autonoma - soprattutto nel buttare via soldi (anche di questo bisognerà parlare, prima o poi) - Trentino Alto Adige.
All’inizio si parlava di “abbattimento”, poi di “arresto”. Ora, con la mobilitazione generale del web una volta tanto per una giusta causa, è da sperare che non si parli – e soprattutto non si faccia – più di nulla. L’orsa Daniza non è l’ultimo cosiddetto bischero di cittadino a cui mandare una cartella esattoriale, prenderla non è affar semplice, e c’è da sperare che perfino gli Schutzen dolomitici a breve si stanchino e si dedichino ad altre amenità, tanto presto l’attenzione pubblica sarà distratta da qualcos’altro.
Resta la figuraccia, ma sotto il (mancato) sole di questa estate italiana una più una meno cosa volete che sia? Avanti la prossima. Nel frattempo ci siamo immaginati l’orsa Daniza alle prese con una propria attività di social networking, tra il serio e il faceto. La differenza tra sparare cazzate e sparare davvero esiste ancora, grazie a Dio. Di Battista a parte.

Comunicato stampa n. 1 dell’orsa Daniza:
Quando l’uomo fungaiolo incontra l’orso boscaiolo, sono cazzi suoi.
(dove l’orsa dimostra una notevole cultura cinematografica, citando addirittura Sergio Leone)

Comunicato stampa n. 2 dell’orsa Daniza:
Vaffanculo al Ministro dell'Ambiente e gia' che ci siamo anche al Presidente del Consiglio. Venitemi a prendere, mezzeseghe.
(notare i toni ancora concitati, sopra le righe, si era nell’imminenza del fatto contestato)

Comunicato stampa n. 3 dell’orsa Daniza:
Caro Matteo Renzi, a me 'un tu mi becchi nemmeno con gli ottanta euro.
((dove l’orsa dimostra una notevole coscienza civile e una attenzione all’attualità anche politica)

Comunicato stampa n. 4 dell’orsa Daniza:
Invece di rompere le scatole a me, abbattete Di Battista.
(idem come sopra, grazie a Dio non è un’orsa a  Cinque Stelle)

Comunicato stampa n. 5 dell’orsa Daniza:
Siete la specie più imbecille che mai sia apparsa su questo pianeta. A cosa serve tirarsi secchiate d'acqua gelata in testa? Se doveste stare ore appostati lungo un torrente di montagna per procurarvi da mangiare, vi passerebbe la voglia di fare queste stronzate.
(a proposito del fenomeno dell’Ice Bucket)

Comunicato stampa n. 6 dell’orsa Daniza:
Io vengo dar Trentino, c'ho er pelo rosso bordò, de prima me fai 'na piotta, de seconda nun ce lo so.
(che l’orsa abbia amici romani? non è da escludere, venendo dalla Marsica, ad un tiro di schioppo dalla capitale)

Comunicato stampa n. 7 dell’orsa Daniza:
Io comunque mi chiamo Ernestina, non Daniza. Sono nata a Magliano de' Marsi e sono emigrata in Trentino da cucciola. Daniza e' il nome che mi hanno messo quelle teste di cazzo della Regione.
(ecco la conferma, altro che Slovenia)


Comunicato stampa n. 8 dell’orsa Daniza:
Voglio un incontro con il Ministro Lupi. A giudicare dal nome mi sembra uno con cui si può ragionare
(questo è ambientalismo, altro che discorsi)

Comunicato stampa n. 9 dell’orsa Daniza:
Renzi chi legge
(no comment)

Comunicato stampa n. 10 dell’orsa Daniza:
Volevo rassicurare tutti i nostri fans, io e i miei cuccioli stiamo tutti bene. Ci siamo infilati in un palazzo enorme, fuori c'é scritto Regione Trentino-Alto Adige, si sta da dio, e chi si rimuove più di qui? Ci sono tutti i confort, e da mangiare a volontà. Si pappa un impiegato al giorno, e finora nessuno se n'é accorto.
(idem come sopra)


E’ tutto per ora. Stay tuned J

DIARIO VIOLA: Buon compleanno Fiorentina

Buon compleanno Fiorentina. La società di Viale Manfredo Fanti compie oggi 88 anni. E quale modo migliore di festeggiarli se non rasserenando un po’ il clima dalle varie tensioni che – incredibile a dirsi – sono andate accumulandosi in questo che tutto sommato è stato uno dei migliori avvii di stagione che si ricordino per i colori viola?
I tormentoni che hanno mandato di traverso – a torto o a ragione – a tanti anche i successi mietuti dai ragazzi di Montella a giro per il mondo in questo mese di agosto sono due, com’è noto. Il ginocchio di Giuseppe Rossi (e relative polemiche violazzurre) e il cuore di Cuadrado, che – per dirla con la Tamaro – non si sa ancora, almeno formalmente, dove lo porterà nella prossima stagione.
Abbiamo già scritto da tempo che probabilmente la migliore citazione letteraria relativa alle vicende viola di questo periodo è tratta sempre da Shakespeare: molto rumore per nulla. Per quanto riguarda lo stop forzato di Giuseppe Rossi, che ne renderà impossibile l’impiego nella prima giornata di campionato e forse anche nella seconda, il giocatore ieri è stato sottoposto ad ulteriori accertamenti clinici, alla presenza del suo procuratore Pastorello e del fidato fisoterapista Luke Bongiorno.
Per quanto riguarda l’esito di questi accertamenti, il comunicato ufficiale di Acf Fiorentina parla di “sovraccarico articolare, seppur associato ad un miglioramento clinico”, e rimanda ad ulteriori valutazioni specialistiche da eseguirsi dopo la partita con la Roma, nonché ulteriori cure fisioterapiche.
In sostanza, succede che il ginocchio di Rossi è infiammato perché ha lavorato troppo. La colpa probabilmente è del fatto che la massa muscolare della gamba non era finora ancora sufficientemente tonica e per questo le strutture dell'articolazione (legamenti, cartilagini) hanno avuto troppe sollecitazioni. In un ginocchio già più volte rattoppato ciò ha fatto comparire infiammazione e dolore. Un fastidio a quanto pare inevitabile, e dagli esiti tecnicamente imprevedibili quanto ai tempi di recupero perché il ginocchio di Rossi non è proprio nuovo come uscito di fabbrica, ma francamente pare di poter escludere che sia giustificato l’allarmismo che si è diffuso nell’ambiente dei tifosi e che ci sia necessità di interventi di ripulitura del ginocchio che allungherebbero fatalmente quei tempi. E’ solo insomma questione di pazienza, visto che quest’anno oltretutto la Fiorentina ha delle soluzioni alternative.
La sensazione è che più che Rossi del fisioterapista siano i tifosi ad avere bisogno di una bella dose di ansiolitici, o di Plasil (inteso come medicinale e non come il giocatore del Catania più volte accostato alla Fiorentina in sede di mercato). Siamo solo ad agosto, la stagione è lunga ed affrontarla così può essere estremamente stressante, per addetti ai lavori e spettatori interessati. D’accordo, i precedenti di Jovetic e Gomez sono poco incoraggianti, ma la Legge di Murphy ha delle eccezioni come tutte le leggi, e non è detto che debba andare sempre tutto storto.
L’altro tormentone, in compenso, dovrebbe essere in dirittura d’arrivo, quanto ad esaurimento. Juan Guillermo Cuadrado, al 26 di agosto, è ancora un giocatore della Fiorentina e con ogni probabilità lo resterà almeno per un altro anno. In realtà abbiamo scritto più volte che si tratta di una non-notizia. Se il talento colombiano avesse avuto reali possibilità di accasarsi altrove (intendendo con “reali” la sostanza di un’offerta che tenesse conto del valore del giocatore e delle legittime aspettative della società che ne detiene il cartellino) a quest’ora lo avremmo già visto indossare qualche maglia di colore diverso, red o blaugrana che fosse.
Invece l’abbiamo visto in campo in viola anche a Lucca, e francamente ci sembra un segnale più significativo di tante voci più o meno sussurrate e/o concitate riportate dai media. L’offertona – almeno 45 milioni, a detta di Andrea della valle - non arriva, o se è arrivata riguarda una trattativa dai tempi dilazionati, un qualcosa alla Toni o alla Jovetic insomma. Le squadre che possono permettersi Cuadrado in Europa sono 4 o 5, la più probabile – il Barcellona – ha il mercato di nuovo bloccato a partire dal 1° gennaio 2015 per questioni di fair play finanziario. Il Real Madrid ha problemi di sovrannumero, altrimenti non avrebbe lasciato via libera a Angel Di Maria e probabilmente anche a Sami Khedira. Manchester e Bayern sono a posto così, serviti, si direbbe se si trattasse di poker. Niente di più facile che eventuali accordi siano stati stretti in vista della prossima stagione e che ancora per un anno JGC11 resti qui a deliziare i palati viola con le sue giocate ed il suo passo doppio o triplo. Al giocatore in compenso i della Valle starebbero offrendo 2,2 milioni di euro a stagione fino al 2018, più bonus a vincere. Una bella consolazione indubbiamente.

Ma sono tutte illazioni, l’unica realtà è che mancano cinque giorni alla fine – se Dio vuole – del calciomercato e all’avvio del campionato. E’ lunga l’estate quando si ha da scrivere per forza di cose che non succedono, o succedono solo nella fantasia di alcuni. Da sabato sera finalmente si fa sul serio, con i primi tre punti in ballo all’Olimpico di Roma. E con una partita che ci dirà se finalmente questa Fiorentina che festeggia oggi 88 anni portati tutto sommato abbastanza bene è più forte del ginocchio di Rossi, del cuore di Cuadrado e della testa di tutti coloro che non hanno saputo godersi la più bella estate viola da tanto, tanto tempo a questa parte.

sabato 23 agosto 2014

La Ballata di Sacco e Vanzetti

Erano le storie che sentivamo raccontare da ragazzi, fatte di emigrazione, fatica, dolore. Ogni tanto qualcuno riusciva a raccontarle in modo più emozionante, come Francesco Guccini con la sua Amerigo. Cominciavano con la valigia di cartone, e finivano con vecchi italiani che diventavano la prima generazione di nuovi americani, magari senza riuscire per tutta la vita a parlare un inglese che non fosse il “broccolino”, comunque non peggiore dell’italiano dialettale della loro infanzia. Oppure con vecchi italiani che tornavano in Italia, vittoriosi o sconfitti non importava, la loro ricchezza agli occhi ed alle orecchie di noi ragazzi stava tutta in quelle storie che avevano da raccontare. Più affascinanti, per noi che non le avevamo vissute, di qualunque favola.
Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco
Questa era la madre di tutte le storie. Non aveva un lieto fine, né di vittoria né di sconfitta. Ma solo di ingiustizia e di morte. Ce l’aveva raccontata il nostro maestro cantore, Ennio Morricone, che l’aveva messa in musica per la voce essenziale, inesorabile e inconfondibile di Joan Baez, la menestrella che si divideva in parti uguali con Bob Dylan la lotta contro tutte le ingiustizie d’America. Here’s to you, Nicola and Bart, riabilitava il nome dell’America insieme a quello di due delle sue vittime più famose.
Ferdinando Nicola Sacco era originario di Torremaggiore in provincia di Foggia. Era giunto negli Stati Uniti nel 1909, non aveva neanche 20 anni. Bartolomeo Vanzetti li aveva compiuti da poco, quando era sbarcato ad Ellis Island l’anno prima, proveniente da Cuneo. Piccoli borghesi in cerca di fortuna, uno dal nord e uno dal sud di un’Italia dove di fortuna ce n’era poca, alla vigilia della Grande Guerra e all’indomani della Settimana Rossa, quella in cui i lavoratori avevano combattuto – inutilmente – per diritti che erano ancora ben lontani dall’esser loro riconosciuti.
Così diversi eppure così uguali, si erano conosciuti nel 1916 dopo varie vicissitudini che li avevano messi alle prese con il capitalismo selvaggio, gli scioperi e le repressioni. A farli incontrare fu l’anarchismo, il verbo di chi al principio del secolo non accettava più padroni. Il comunismo era ancora uno spettro che si aggirava per l’Europa, come ai tempi di Marx. Di lì a poco sarebbe diventato l’incubo del mondo, almeno di quello capitalista. Nel 1917 la rivoluzione russa avrebbe gettato nel panico le principali potenze industriali della Terra. Incredibilmente, quella che accusò maggiormente il colpo fu la giovane democrazia (qualcuno avrebbe detto plutocrazia) nordamericana.
Gli Stati Uniti erano, e sono rimasti, l’Aquila che tiene tra gli artigli il Serpente. Il sole che nasce ed il cuore di tenebra, il bene ed il male che si fronteggiano all’infinito. Nessuno ebbe terrore del comunismo come il paese che era nato dal desiderio di libertà di tutti i diseredati d‘Europa, e poi del mondo. Il comunismo sovietico minava alla base la filosofia di vita americana e occidentale, e tanto bastava per dimenticarsi di tutto, dalla Costituzione americana ai suoi emendamenti. Anarchici o comunisti non faceva differenza. A ben vedere, poi, gli uomini che si battevano contro ogni potere avevano già segnato la storia americana. Nel 1901 il presidente William McKinley era caduto vittima dei colpi di pistola dell’anarchico polacco Leon Czolgosz, un anno dopo che Gaetano Bresci aveva fatto fare la stessa fine al Re d’Italia Umberto I.
Nel 1917, Sacco, Vanzetti e tutto il gruppo anarchico del Massachussets fuggirono in Messico, renitenti alla leva chiamata dal governo americano a causa dell’entrata nella Prima Guerra Mondiale. Al ritorno, erano tutti schedati dalla polizia come sovversivi. Quando nel 1920 uno di loro, Andrea Salsedo, arrestato a seguito di disordini, volò dal quattordicesimo piano di un edificio del Ministero della Giustizia, tra gli organizzatori delle manifestazioni di protesta c’erano anche Nick e Bart, Sacco e Vanzetti. Che non immaginavano di aver firmato la loro condanna a morte.
Il comizio avrebbe dovuto aver luogo a Brockton il 9 maggio, ma la polizia aveva già fermato i due anarchici italiani. In tempo per accusarli anche di una rapina avvenuta a South Braintree presso il calzaturificio Slater & Morril, conclusasi con l’omicidio del cassiere e di una guardia giurata.
“Mi sono vergognato di vivere in un paese dove la giustizia è un gioco”, avrebbe cantato Bob Dylan 50 anni dopo a proposito di un’altra ingiustizia colossale, la carcerazione di Rubin Hurricane Carter, il pugile accusato di omicidio a Patterson, N.Y.
Sacco e Vanzetti furono inquisiti e processati per sette anni, durante i quali non ebbero nessuna reale possibilità di difendersi. Neppure la testimonianza del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che li scagionava, fu presa in considerazione dal giudice Webster Thayer, dalla giuria, dai media, dall’opinione pubblica. I due bastard anarchists, come li chiamava lo stesso giudice, o Wops (appellativo dispregiativo – WithOut Papers – ironizzante sulla differenza e sulla distanza sociale con gli Wasp, la popolazione di etnia anglosassone del New England) erano destinati a diventare i primi e più famosi capri espiatori della politica governativa basata sulla prima grande psicosi della storia americana: la paura del comunismo, destinata a replicarsi 30 anni più tardi ai tempi della Guerra Fredda e del senatore McCarthy.
La manifestazione di Trafalgar Square a Londra
per la liberazione di Sacco e Vanzetti
A nulla valse la mobilitazione di intellettuali in Europa e negli Stati Uniti. Albert Einstein, George Bernard Shaw, Bertrand Russell, H.G.Wells, sono solo alcuni dei nomi di coloro che si batterono per la salvezza dei due immigrati italiani. Il Governatore del Massachussets rifiutò la grazia dopo la sentenza che condannava a morte Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.  Neppure il governo italiano di Benito Mussolini, che malgrado la connotazione fascista si era battuto a fondo per la salvezza dei due connazionali emigrati, riuscì ad ottenere un esito diverso.
Il 23 agosto era una data infausta per l’Italia, nel 1926 si era spento a New York il più famoso dei suoi emigrati in America, Rodolfo Valentino, alla giovane età di 31 anni. L’anno dopo, a sette minuti di distanza, Nick e Bart furono fatti accomodare sulla sedia elettrica del carcere di Charleston, un sobborgo della civile Boston, culla della rivoluzione americana. Sulle mura del carcere il direttore aveva fatto sistemare addirittura delle mitragliatrici, per paura delle possibili reazioni della folla radunatasi fuori della prigione per protestare contro l’infamia di quella esecuzione. Analoghe manifestazioni stavano avendo luogo nelle principali capitali europee. Tutto inutile.
La storia di Sacco e Vanzetti finì così. La loro leggenda e la giustizia della loro causa furono affidate alle parole della ballata di Joan Baez, e a quelle del governatore dello Stato del Massachussets Michael Dukakis, che esattamente 50 anni dopo dichiarò che “ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti”. Bel gesto, che però non ha più valore della riabilitazione di Galileo da parte di Woytila. Riabilitazione, comunque, ma non assoluzione, perché formalmente la condanna inflitta ai due italiani non fu eliminata dal casellario penale. Per la Giustizia U.S.A., ancora oggi Nick e Bart sono due colpevoli, nessuno ha mai rivisto o rivedrà il processo.
Joan Baez e Bob Dylan
90 anni dopo, il nome dell’America è affidato al suo meglio a gente come Joan Baez e Bob Dylan, e alla loro capacità di vergognarsi e di far vergognare la più grande democrazia del mondo dei suoi errori. E alla capacità di quella democrazia di imparare da essi. Che si ripeteranno sempre all’infinito, al pari degli orrori che li provocano.
Errori ed orrori, l’Aquila ed il Serpente.

Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano

(Bartolomeo Vanzetti, 19 aprile 1927, Dedham, Massachusetts)

venerdì 22 agosto 2014

DIARIO VIOLA: Conte ai Campini: Rossi è un giocatore della Nazionale

In assenza di notizie di mercato, la notizia del giorno è che Giuseppe Rossi torna ad essere un giocatore convocabile per la Nazionale italiana di calcio. La rivoluzione copernicana si consuma intorno alle 10,00 del 21 agosto, allorché il nuovo CT varca le Colonne d’Ercole del Centro Sportivo dell’A.C.F. Fiorentina, i cosiddetti Campini.
Atto di coraggio o atto dovuto? Ripensando ai trascorsi di Antonio Conte a Firenze verrebbe da pensare più alla prima ipotesi. Nei tre anni trascorsi sulla panchina bianconera, ricordiamo la prima comparsa nella notte della vergogna (non per lui, malgrado la presa in giro da parte di uno stadio Franchi dove tutti indossarono una parrucca viola in suo onore, ma per la Fiorentina che si fece travolgere 5-0 in casa propria dall’odiata rivale bianconera). Poi la seconda dietro un vetro di plexiglas antisfondamento (era il periodo in cui doveva scontare la squalifica per la omessa denuncia degli illeciti sportivi occorsi quando sedeva sulla panchina del Siena). E infine la terza, la scorsa stagione, cominciata così bene e poi finita così male per la valanga di gol segnati alla sua Juventus da Pepito Rossi. Infine la notte della maledetta di Pirlo e del passaggio ai quarti di Europa League a spese della Fiorentina, con Rossi fuori gioco per infortunio.
E’ proprio per Rossi che Conte torna a Firenze dopo alcuni mesi, in una delle primissime uscite da Commissario tecnico azzurro. Il Teorema di Prandelli è rovesciato, la patria pallonara può essere salvata – e la nazionale rifondata – proprio a partire da quei pochi fuoriclasse che abbiamo. E di questi forse Rossi è quello più importante. “Sono venuto per parlare con Montella, perché siamo molto interessati a Rossi e vogliamo trovare insieme a lui una tempistica giusta per l’utilizzo del giocatore”.
Da notare, Pepito è a riposo per il risentimento accusato in allenamento prima dell’amichevole con il Real Madrid, eppure il neo CT non ci pensa neanche un attimo ad avere perplessità circa il suo futuro in azzurro. In città intanto infuria la battaglia tra il pessimismo cosmico di marca viola ed il revisionismo pirandelliano (in un senso o nell’altro), e per di più qualcuno il tempo per inalberarsi a veder spuntare all’orizzonte qualcosa che ha a che fare con il bianconero lo trova sempre. Antonio Conte passa indenne attraverso tutto ciò. A lui interessa solo dimostrare anche in questa nuova avventura federale di essere il vincente che è stato nei tre anni appena trascorsi. Gli servono i campioni, e qui ce n’è uno, perciò eccolo qui.
“Mi fido di Montella, aspetto che sia lui a spiegare quali sono le condizioni di Rossi”, dice Conte prima di entrare ai Campini. “Non sono più l’allenatore della Juve, oggi sono l’allenatore dell’Italia e quindi ho bisogno della collaborazione di tutti. L’accoglienza è stata ottima da parte della Fiorentina ed è andato tutto benissimo. Come ho trovato Pepito? Bene, contiamo molto su di lui”, dice alla fine, prima di risalire in auto e lasciare Firenze.
E’ una rivoluzione che si consuma nel tempo che dura l’allenamento, con Rossi che svolge il lavoro personalizzato mentre parla con il mister viola e quello azzurro, oltre che con i dirigenti della A.C.F. Fiorentina presenti al Centro Sportivo. Alla fine sarà Sandro Mencucci a riassumere la posizione della società. “A nome della Fiorentina faccio i migliori auguri e un grosso in bocca al lupo a Conte, che sia un grande allenatore è fuor di dubbio. E nella circostanza ha dato un’ottima impressione. Se la Nazionale vuole tornare a giocare a Firenze, perché no, noi ci siamo”.
Per la Fiorentina, insomma, c’è molto di più in ballo che il recupero e la valorizzazione del patrimonio artistico rappresentato da Giuseppe Rossi. C’è il recupero di un rapporto con la Federazione e con la Nazionale – con il resto d’Italia, in una parola – che malgrado gli auspici dei patron Della Valle non è mai finora decollato durante la loro permanenza in sella alla società viola. E che è visto giustamente come essenziale per creare intorno alla stessa società ed alla squadra una corrente di simpatia che al contrario del clima di “muro contro muro” vissuto negli ultimi anni non sia pregiudizievole per le ambizioni sportive di una proprietà che pare finalmente intenzionata a fare un ragionevole sforzo per aggiornare il capitolo vittorie.
Il passato è passato, l’eventualità che molti tifosi viola si riconcilino con l’ambiente circostante è ancor meno probabile di quella che Prandelli faccia con Pepito Rossi quello che ha fatto il suo collega selezionatore della Nazionale australiana Ange Postecoglou con Joshua Brillante, cioè gli chieda scusa per non averlo convocato (e magari anche per le dichiarazioni post-mondiale). Ma la società almeno ha il dovere di aprire un’era di distensione, così come di presentare una squadra competitiva. E non c’è dubbio che in entrambi i casi attualmente stia facendo in pieno il suo dovere.

Dicevamo in apertura del mercato: molto rumore per nulla. E va bene così. Cuadrado è ancora qui.

martedì 19 agosto 2014

DIARIO VIOLA: Seppellite il mio cuore a Wounded Knee

L’A.C.F. Fiorentina comunica che il calciatore Giuseppe Rossi si è sottoposto ad accertamenti diagnostici che hanno escluso lesioni muscolari a carico dei flessori della coscia . Dal controllo tuttavia sono emersi segni di sovraccarico a livello del ginocchio destro. L’atleta sarà sottoposto ad un periodo di riposo e cure del caso per almeno 7 giorni, al termine dei quali sarà sottoposto ad ulteriore controllo.
Seppellite il mio cuore a Wounded Knee. Firenze ripiomba nell’angoscia per il ginocchio più tribolato e idolatrato dai tempi di Roberto Baggio (passando per Stevan Jovetic). Di colpo tutta l’euforia accumulata nelle scorrerie sudamericane e iberiche, fino alla vittoria prestigiosa contro i campioni d’Europa del Real Madrid in terra polacca, si dissolve al termine delle poche righe con le quali la Fiorentina spiega il perché Pepito non è volato a Varsavia e difficilmente prenderà l’aereo per Roma.
Firenze è una città particolare. I suoi abitanti oscillano tra la consapevolezza di un grande destino (più spesso simile al fatidico “grande avvenire dietro le spalle”) e la paranoia di un complotto mondiale che li cinge d’assedio e mortifica qualsiasi tentativo di rinverdire, soprattutto in ambito calcistico, i fasti di un passato glorioso. E così, non appena succede l’inevitabile, cioè che il carico di lavoro straordinario della preparazione estiva si fa sentire nelle articolazioni di colui che indubbiamente è il pezzo più pregiato ma anche quello più delicato della Banda Viola, ecco che riaffiorano le varie sindromi da tifo ansioso. Se non ci pensa la F.I.G.C. a farci le scarpe, ci pensiamo da soli. Prandelli aveva ragione! (notare il tono millenaristico, da predicatori evangelici di altri tempi), come del resto l’aveva Savonarola! Mala tempora currunt, la Roma farà strame di noi, retrocederemo! E chi peggio ne ha più ne metta.
Come diceva un commentatore illustre, il tifoso in quanto tifoso predilige non pensare a niente. A questo “pensiero debole”, per dirla con Gianni Vattimo, si accompagna spesso una mania di persecuzione – almeno in riva all’Arno – pressoché assoluta. Siamo i pellirosse costretti in riserva, che alla fine nell’anno 1973 dopo decenni di vessazioni da parte delle Giacche Blu mandate dal Grande Padre Bianco di Washington sbottano e si ribellano proprio lì, a Wounded Knee (notare il nome fatidico) dove si era compiuto un secolo prima l’ultimo massacro delle Guerre Indiane. E noi viola dove potremmo radunarci? A Cagliari, ad Avellino o a Montesenario?
Fuor di metafora, quella di Pradé scommessa era e scommessa resta. Come già quelle di Robertino Baggio (a cui non impedirono di essere acclamato come uno dei più grandi fuoriclasse di tutti i tempi), le articolazioni di Pepito meritano riguardo. I carichi di lavoro normali per i suoi compagni a lui sono e saranno vietati, per tutto il resto della sua carriera.
Probabilmente il mese di preparazione ai mondiali (poi risultato inutile) seguito dal mese di vacanze e poi da quello della ripresa della preparazione estiva in viola hanno sovraccaricato i legamenti martoriati del nostro numero 22, ma se non fosse successo ora sarebbe successo più avanti. Perché l’unica cosa certa è che pur non infortunandosi, il fenomeno italo-americano 60 partite circa a stagione per 90 minuti non può reggerle. Magari la metà sì, però, se lo si sa gestire. Vediamo se Montella riesce là dove mostri sacri del passato hanno gettato la spugna. Ogni riferimento a Cesare Prandelli è assolutamente voluto.
Insomma, cari tifosi viola, da dove viene il pessimismo cosmico, il millenarismo che aleggia sopra le rive dell’Arno proprio in questa estate così promettente, con il record di abbonamenti del 1981-82 (formidabile quell’anno) superato e con quello assoluto nel mirino? Continuare a pensare che in F.I.G.C. ci siano dipendenti assunti allo scopo esclusivo di danneggiare la Fiorentina, oppure che nella stessa Fiorentina ci sia esclusivamente gente incapace o peggio in malafede rischia di farci avvelenare anche un’annata che invece potrebbe promettere molto.
La panchina quest’anno è più lunga, l’anno scorso non avevamo né il Bernardeschi capace di regolare l’Arezzo da solo né il Babacar che insieme a Supermario Gomez ha messo in difficoltà la retroguardia campione d’Europa. D’accordo che la Legge di Murphy (“se qualcosa può andare storto, lo farà") l’abbiamo praticamente scoperta e brevettata qui a Firenze, ma insomma, anche nell’estate del 1968 erano convinti che si sarebbe lottato per non retrocedere. Com’è andata invece, lo sanno tutti, i bambini di allora e quelli di adesso.
Saremo anche dei chiacchieroni, come dice qualcuno, ma la specie di quelli che rischiano, che osano, ci piace di più. La Fiorentina che scommette sulle ginocchia di Jovetic, di Gomez, dello stesso Rossi non è detto che debba buscarne sempre. Il Codice Etico è una gran bella cosa, i trofei da mettere in bacheca lo sono di più. Ce ne siamo resi conto quest’estate, continuare sarebbe assai bello, e crediamo che Montella sia il primo a rendersene conto. Con i piedi e, perché no, con le ginocchia di Rossi è possibile.
Se poi dovesse andare tutto male (il che vorrebbe dire comunque respirare aria di casa), mi raccomando. Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.

domenica 17 agosto 2014

DIARIO VIOLA: Real Fiorentina batte Madrid 2-1

A questo punto la cosa più difficile per giocatori, dirigenti e tifosi è tenere i piedi per terra. Il 30 agosto all’Olimpico di Roma il campionato 2014-15 inizierà con il derby tra le due squadre che hanno battuto il Real Madrid campione d’Europa. E tra le due, Roma e Fiorentina, francamente quella che ha destato la maggiore impressione è proprio quella viola.
Allo Stadion Narodowy di Varsavia va in onda l’ultima delle amichevoli di lusso di questa strepitosa estate 2014, per una Fiorentina che è riuscita a riscaldare il cuore dei propri tifosi malgrado il tempo più inclemente a memoria d’uomo. Dopo aver saccheggiato Sudamerica e Spagna vincendo in lungo e in largo, i viola si presentano qui allo stadio del Popolo, lo stesso dove Cesare Prandelli colse la sua ultima vittoria di prestigio con la Nazionale azzurra nella semifinale europea del 2012, Italia-Germania 2-1, per la terza sfida della loro storia contro il Mito.
Il Real Madrid di Di Stefano e Gento spezzò il sogno viola di conquista della Coppa dei Campioni nel 1957. Due anni dopo rese visita alla Fiorentina e concesse la rivincita nella Coppa del Centenario (messa in palio dal quotidiano La Nazione per festeggiare 100 anni dalla sua fondazione). I viola quella rivincita se la presero per 2-1, segnarono Ramon Lojacono e Miguel Angel Montuori, accorciò Ferenc Puskas.
Altri tempi, altri giocatori. Il Real dopo 55 anni è di nuovo campione d’Europa, la Fiorentina cerca di riconquistare una dimensione internazionale confidando sulla buona salute dei suoi assi, mancati purtroppo nella stagione scorsa. Nella “bella” contro il Real le mancano Rossi e Cuadrado, tenuti a riposo a scopo precauzionale anche se tale precauzione rispettivamente ha valenza diversa. Pepito aspetta di sapere se potrà scendere in campo all’Olimpico per i primi tre punti dell’anno che verrà. Cuadrado aspetta di sapere in quale campionato giocherà. E ormai, come si dice a Firenze, siamo alle porte con i sassi.
Anche il Real scende in campo per questa Coppa Supermecz messa in palio dai polacchi in formazione rimaneggiata. In panchina schiera nell’ordine Sergio Ramos, Carvajal, Benzema, Bale, Casillas, Pacheco e Pepe, una squadra di titolari a qualsiasi latitudine. Nomi che fanno impressione al pari di quelli che vanno in campo. Di Maria è ristabilito dall’infortunio mondiale, e lo dimostrerà. Khedira è al settimo cielo per il titolo di campione del mondo conquistato un mese e mezzo fa, e il Real dimostrerà di aver poca voglia di privarsene. E poi c’è Cristiano Ronaldo, primo pallone toccato e subito gol, il Pallone d’Oro si presenta così.
Lo stadio del Popolo è una mezza bolgia, i polacchi fischiano la Fiorentina, rea di aver rubato la scena al loro Legia Varsavia. Sembra di giocare al Santiago Bernabeu, ma questa Fiorentina non ha paura e lo fa vedere subito. Il rinato Babacar si mette in mostra subito anche qui, i primi 10 minuti sono viola, poi incoraggiato dal gol di Cristiano Ronaldo è il Real che prova a incutere timore, e per altri 10 minuti sembra riuscirci. Ma si vede che per la Fiorentina è solo questione di prendere le misure al grande calcio che conta, quando riparte ha un tocco di palla che ha poco da invidiare a quello delle merengues. Mario Gomez vuole spaccare il mondo, Borja Valero vuole far vedere alla Spagna intera che tra le Furie Rosse c’era posto anche per lui, Marcos Alonso ha voglia di fare il figliol prodigo di questo Real, Aquilani sembra Marco Tardelli, giocano tutti bene e anche meglio.
Al 26’ Supermario viene pescato in area madridista da Aquilani e segna un gol dei suoi. 1-1, da lì alla fine del tempo due occasioni per parte. Nella ripresa si riparte con un Real che vuole riprendersi il risultato, giocando di nuovo aggressivo ma finendo spesso in fuorigioco con i suoi uomini gol. Dopo Di Maria, gol annullato anche a Benzema per offside clamoroso. La Fiorentina stringe i denti e piano piano viene di nuovo fuori, mentre dagli spalti qualche applauso comincia a gratificarla, in corrispondenza del riscaldamento dell’enfant du pays Rafal Wolski.
Escono Gomez e Aquilani, ma la qualità pare non risentirne. Ilicic e Brillante vanno a sistemarsi in mezzo ad una partita che sembra tingersi di nuovo di viola. Al 70 Firenze finalmente sogna. Marcos Alonso, il ragazzino che la cantera del Real aveva scartato qualche anno fa, conclude una azione caparbia in area merengue con un tiro su cui Keylor Navas non può nulla. E’ apoteosi viola, e adesso si comincia a guardare l’orologio. Quanto manca?
Nei 20 minuti che mancano più i 5 concessi di recupero dall’arbitro Stefanski incredibile a dirsi ma sarà proprio la Fiorentina ad avere il maggior numero di occasioni per arrotondare. Al delizioso pallonetto di Angel Di Maria fuori di un soffio rispondono Vargas con una bomba impressionante da fuori area e Ilicic che manda fuori di pochissimo in contropiede imbeccato da Bernardeschi, entrato in campo nei minuti finali insieme a tutta la panchina viola. Le riserve fiorentine non tremano di fronte a quelle – si fa per dire – madridiste e alla fine Rafal Wolski può andare ad alzare la Coppa Supermecz sotto il cielo della sua Varsavia.

E adesso, chi glielo dice a Firenze che questa era solo un’amichevole? Che i piedi devono stare ben saldi per terra? Mannini è vendicato. Vencido y vencidor, siempre con honor.

sabato 16 agosto 2014

Il contratto sociale

Il primo atto della gestione Tavecchio è dunque la nomina del nuovo Commissario Tecnico della Nazionale. Un atto quasi dovuto, se si pensa alla necessità drammatica di rilancio di un calcio – quello italiano – che è arrivato in occasione del mondiale brasiliano al suo minimo storico. Antonio Conte, reduce da tre anni di successi sulla panchina della Juventus (bruscamente interrotti circa un mese fa con un addio che sul momento era sembrato a sorpresa), è il tecnico più vincente del calcio italiano al presente, essendo Fabio Capello fuori mercato a causa del contratto che lo lega alla Federazione Russa fino al 2018 e ai mondiali disputati in casa di Putin.
Volendo tornare a vincere qualcosa, c’era insomma poco da scegliere. I nomi che si facevano in alternativa erano poco appetibili e poco convincenti. Sulla panchina azzurra torna a sedersi un allenatore che viene da vittorie di club importanti, e pazienza – almeno per la metà d’Italia che non è bianconera – se quelle vittorie sono state tutte ottenute in quel di Torino, come era successo nei casi precedenti di Lippi e Trapattoni.
Ma più che la provenienza del nuovo CT a scatenare il web in un’ondata di polemiche che forse meriterebbero cause migliori è la natura economica dell’accordo. Ad Antonio Conte andranno 3,5 milioni di euro l’anno, dei quali 1,6 ce li metterà la Federazione, che sulla base di questa cifra aveva già offerto al predecessore Cesare Prandelli un improvvido e intempestivo rinnovo già prima dei disastrosi mondiali brasiliani, mentre i restanti 1,9 ce li metterà lo sponsor della Nazionale, la Puma.
Sono cifre importanti, che indubbiamente fanno una certa impressione in un mondo in cui ormai la parola d’ordine è un motto anglosassone, spending review, e molte persone hanno visto spostarsi la soglia della disperazione dalla fatidica terza settimana alla seconda, o addirittura anche alla prima. Ma a ben vedere, la spesa a carico dello Stato è la stessa delle passate gestioni, e almeno su questo a Tavecchio e a chi l’ha voluto dov’è adesso non si può fare nessuna colpa. Quanto alla Puma, rifiutarne il contributo è il classico dispetto del marito alla moglie. Dove sarebbe la Nazionale tedesca senza il sostegno storico dell’Adidas?
In realtà, in un paese dove il Presidente della repubblica guadagna più di quello degli Stati Uniti, dove il capo della Polizia guadagna più di quello della C.I.A., dove un qualunque “manager” pubblico o privato si sente autorizzato a chiedere (e ad ottenere) cifre stipendiali che nel resto del mondo civile restano sogni irrealizzabili per figure professionali omologhe o equivalenti, una volta di più ci si dimostra disposti a scandalizzarsi per la busta paga e per le prebende degli altri. Fatta salva magari la propria discutibile disponibilità assoluta a mettersi in coda a rinnovare abbonamenti costosissimi ad un calcio che per lo spettacolo che offre ormai meriterebbe di fare la fine che gli aveva auspicato il buon Mario Monti (con l’unica proposta politica che con il senno di poi aveva azzeccato). Oppure a pagare mensilmente alle PayTV cifre che probabilmente si reputano inammissibili per il pagamento di un qualunque servizio pubblico.
Siamo in Italia, ed il moralismo a buon mercato o a costo zero portato avanti nell’ambiente confortevole e di tutto riposo dei social network ha un fascino irresistibile. La Presidentessa della Camera dei deputati non trova di meglio che diversificare il servizio di parrucchiera (mettendo fine ad una odiosa discriminazione sessista), e tutti zitti. Il Presidente della Regione Toscana invece scatena i suoi ghost writers (a carico pubblico) cavalcando la tigre dell’indignazione in perfetto stile Uomo Qualunque che riaffiora nella nostra società dove facebook sta distruggendo gli ultimi neuroni funzionanti. Con quei soldi ci avremmo pagato almeno 200 infermieri, tuona il Governatore Rossi, dimenticandosi magari poi di spiegare che fine hanno fatto i soldi che lui aveva in gestione, e perché la sua amministrazione continua a tagliare ospedali, servizi e posti di lavoro nel settore sanitario.
Unicuique suum. La parola d’ordine è demagogia insomma, e a tutti i livelli chi più ne ha più ne metta. Nessuno sa fare a meno di un balocco costoso e scadente come il calcio, ma è proprio nel calcio che vorremmo veder attuarsi una moralizzazione che non abbiamo nessuna seria intenzione di promuovere in qualsiasi altro settore della nostra vita civile. Il calcio ha effettivamente delle aggravanti comportamentali, nella vicenda della Nazionale per esempio la commedia delle parti è stata veramente disarmante.
Secondo quella corrente di pensiero cosiddetta deterministica, niente è mai lasciato al caso. Prandelli conclude ignominiosamente il mondiale il 24 giugno, il 29 ha già il contratto con il Galatasaray (oltre a quello – rescisso – con la F.I.G.C.). Pochi giorni dopo Antonio Conte lascia Torino sbattendo quasi la porta e malgrado tutta la dietrologia possibile e immaginabile i giorni successivi dimostrano che non ha in mano niente, contrattualmente parlando. Tutti però sanno che la data decisiva è quella dell’11 agosto, Tavecchio o non Tavecchio, to be or not to be. Arriva Tavecchio, e la prima cosa che fa è telefonare a Conte rassicurandolo che il prossimo è lui.
Antonio Conte è probabilmente l’uomo giusto che arriva al posto giusto nel modo sbagliato, è una costante italiana e a quanto pare c’è poco da fare. Quello che ci si può augurare è che trasferisca in azzurro tutta la grinta che ha messo in bianconero per tre anni e che l’Italia torni ad essere qualcosa di più dell’ectoplasma – complicato dai neurodeliri di Balotelli – visto all’opera negli ultimi anni.

Poi c’è la questione di Firenze, dove già molti brontolano e rumoreggiano, farneticando di nuovi assedi, boicottaggi o non si sa bene che altro presso il Centro Tecnico Federale di Coverciano. Firenze si è spesso fatta male da sola negli ultimi 20 anni proprio coltivando una guerra personale alla Federazione e alla Nazionale che non ha prodotto niente di buono e anzi spesso ha complicato i tentativi di ripresa di un discorso di vittorie. L’auspicio è che questo atteggiamento cambi, che la Nazionale di Conte venga a Coverciano tranquilla a preparare un nuovo ciclo di vittorie, e che i fiorentini ritrovino il gusto antico del fare, che troppo spesso in epoca recente è stato sostituito da quello del parlare.

giovedì 14 agosto 2014

I figli del Mito

Da che mondo è mondo, un bambino italiano appena comincia a camminare inizia a sognare di correre sulla Ferrari. E' una Ferrari l'automobilina a pedali, o magari adesso a motore, che i genitori gli regalano. E' della Ferrari l'adesivo che il bimbo italiano appiccica dovunque, a cominciare dalla macchina del padre o dalla cartella di scuola, insieme a quello della squadra di calcio preferita. E' alla Ferrari che il bambino italiano, una volta cresciuto e diventato ragazzo, e poi uomo, continua a dedicare i propri sogni. Chi può (pochi), se la compra. Chi non può (la maggior parte), se la vede - e se la tifa - alla televisione.
La Ferrari è la più antica e prestigiosa delle scuderie della Formula 1, l'unica che ha partecipato a tutte le edizioni del campionato del mondo, in 62 anni. Vinse il primo Gran Premio della sua storia il 14 luglio 1951 con José Froilan Gonzales, il Toro delle Pampas, superando la prestigiosa scuderia che aveva tenuto a battesimo il giovane pilota Enzo Ferrari, l'Alfa Romeo, a Silverstone, ex aeroporto da cui decollavano gli Spitfire durante la Seconda Guerra Mondiale, orgoglio dell'automobilismo inglese e luogo dove l'automobilismo italiano si è tolto alcune delle più grandi soddisfazioni.
A quell’epoca ancora la leggenda di Tazio Nuvolari, Enzo Ferrari, Juan Manuel Fangio si seguiva attraverso i giornali, perché la televisione non c'era. Quando poi arrivò fu la Ferrari ad andare in crisi, e stette 14 anni senza vincere, dal 1961 al 1975. La rinascita Ferrari, era il 1975, appunto, portò il nome di uno sconosciuto ragazzo austriaco, Andrea Nikolaus Lauda, detto Niki, preso per scommessa dall'Ingegnere Enzo Ferrari e da Luca di Montezemolo, che Agnelli aveva messo in FIAT a seguito dell’entrata in compartecipazione azionaria.
Niki Lauda e James Hunt, il grande Rush del 1976
Lauda riportò il Cavallino sul tetto del mondo e l'automobilismo italiano ai livelli di eccellenza a cui una volta era abituato. Ma entrò nel cuore dei tifosi italiani ancora di più l'anno dopo. Dominò il mondiale del 1976 fino al Nurburgring, quando - Il 1° agosto - la macchina, una Ferrari pressoché perfetta, gli sfuggì di mano andando a schiantarsi e prendendo fuoco. Per 45 secondi Niki Lauda rimase tra le fiamme. Fu salvato dai colleghi che coraggiosamente si precipitarono a tirarlo fuori dall'abitacolo senza aspettare i soccorsi. La sua faccia non si salvò, la sua vita sì.
Aveva un vantaggio tale che quando tre mesi dopo tornò incredibilmente a correre, sembrò che potesse vincere lo stesso il mondiale, tenendo alle spalle il suo principale avversario, l'inglese James Hunt della McLaren. Ma all'ultima gara in Giappone, al Fuji, la pioggia scrosciante rese proibitive le condizioni di gara. Niki decise che per quell'anno di coraggio ne aveva avuto abbastanza e si ritirò. Hunt finì quinto, e per un punto diventò campione del mondo.
I tifosi compresero il momento di Niki Lauda. La Ferrari no. Forse Enzo apprezzava troppo il coraggio come valore assoluto per comprendere fino in fondo quel suo pilota straordinario, ma poco spettacolare (secondo i parametri dell'automobilismo eroico di una volta). O forse ormai avevano preso il sopravvento logiche aziendaliste più FIAT che Ferrari. Oppure, fu Niki a non sentirsi tutelato e compreso e ad accentuare il divario. Fatto sta che, nel 1977, Lauda e Ferrari rivinsero il mondiale, mentre Hunt e Andretti facevano a sportellate per tutta la stagione, ma un attimo dopo annunciarono la separazione.
Niki annunciò il ritiro a fine 1979, dopo due anni in Brabham, mentre Jody Sheckter vinceva il mondiale per Maranello e Gilles Villeneuve cominciava la sua cavalcata in rosso che ne avrebbe fatto la leggenda più struggente e incredibile dopo quella di James Dean. Per la Ferrari cominciarono altri 20 anni di calvario.
Villeneuve morì a Zolder nel 1982, dopo aver chiesto troppo al destino in più occasioni. I grandi piloti, Prost, Senna, e perfino Niki Lauda redivivo (e vincitore di un incredibile campionato per mezzo punto nel 1984!) preferivano correre per la McLaren, contro cui combatteva l'outsider Williams di Jones, Mansell & C. Nel 1990 Alain Prost illuse tutti, finendo a fare a ruotate con Senna e compromettendo la grossa chance che si era costruito nella stagione.
L'industria italiana automobilistica era in grave crisi, e si vedeva anche nelle corse. Fior di piloti si alternavano sulla monoposto di Maranello, che però non andava neanche a spingerla. Un camion, secondo la definizione di Alain Prost. La Ferrari preferì licenziare Prost, piuttosto che i progettisti, anticipando una consuetudine futura della FIAT.
Nel 1995 Gianni Agnelli si ricordò che la Ferrari era una partecipata FIAT, che Luca di Montezemolo se ne era già occupato con successo e che forse bastava trovare dei degni successori a Lauda e Forghieri per tornare a combinare qualcosa. Enzo Ferrari era morto nell'agosto del 1988. L'eredità era tutta sulle spalle della FIAT. La Leggenda Ferrari non poteva finire così.
A Kerpen, in Germania, era nato l'erede di Niki Lauda. Si chiamava Michael Schumacher, aveva già vinto due mondiali con la Benetton di Briatore (che non fece storie all'Avvocato per cedergli il suo gioiello). Dall'Inghilterra arrivò Ross Brown, che trasformava in oro tutto quello che progettava. Dalla Francia arrivò Jean Todt, uno dei pochi veri eredi di Napoleone Bonaparte.
Per tre anni si trattò di lottare fino all'ultima giornata. Nel 1997 vinse Jacques Villeneuve, un altro figlio del Mito. Nel 1998 e 1999 vinse Mika Hakkinen, il finlandese volante. Nel 2000 Ferrari e Schumacher erano in sintonia tale che Michael decise di farsi i capelli rossi, per festeggiare la vittoria. La macchina gli andava addosso ormai come un vestito. La McLaren resistette fino a Monza, a due Gran premi dalla fine, poi cedette. E fino al 2004 si trattò soltanto di capire con quanto anticipo il tedesco e il suo Cavallino volante avrebbero vinto il campionato.
I record di Michael e della sua Ferrari non saranno mai battuti da nessuno. O forse qualcuno potrebbe provarci, se la macchina lo assistesse. Quel suo erede che esplose nel 2005, per merito sempre del solito Briatore (coté Renault, stavolta), togliendogli lo scettro, Fernando Alonso, primo spagnolo a diventare campione del mondo di F1, veniva da Oviedo nelle Asturie, e da anni di anonimato. Messo a bordo di una macchina che volava, spiccò il volo anche lui.
Nel 2005 la Ferrari si fece sorprendere. Fernando vinse facile. Nel 2006 invece la Ferrari c'era. Michael Schumacher lottò con classe, rabbia e determinazione. Avrebbe vinto se il motore della Ferrari non l'avesse piantato in asso alla penultima corsa. Ma Fernando era lì, pronto a raccogliere il favore del destino. Così sembrò, un passaggio di consegne voluto dal destino stesso. Finita l'era Schumacher, cominciava l'era di Alonso.
Fernando credette di trovar fortuna alla McLaren, ma gli preferirono Hamilton. Non so cosa ci abbia guadagnato la Scuderia di Woking. Sicuramente ci ha guadagnato quella di Maranello. Sdegnato dal trattamento ricevuto, Fernando riparò nuovamente alla Renault, ma quando chiamò Maranello lui era già lì, al cancello. Come Schumi, i primi anni ha dovuto chinare la testa di fronte ad una eccezionale avversaria, in questo caso la Red Bull. La Ferrari purtroppo è stata progettata male e gestita peggio. Ma una cosa è certa. Se la Rossa in un modo o nell'altro torna competitiva, è solo questione di tempo. Nella Galleria di ritratti cominciata con Francesco Baracca ed Enzo Ferrari, prima o poi ci sarà anche la foto di Fernando Alonso da Oviedo, Asturias.

Vamos a ganar, hombre. Vamos.

L'uomo del Cavallino Rampante

«Se lo puoi sognare, lo puoi fare». Era una delle frasi preferite dell’Ingegnere, come lo chiamavano per brevità (e rispetto) i suoi collaboratori. Lui di sicuro i suoi sogni li aveva realizzati tutti, prima di andarsene alla veneranda età di 90 anni un 14 agosto di 26 anni fa. Non era il momento migliore per quella sua creatura che portava il suo nome, e il cui marchio era diventato nel frattempo leggenda, con lui ancora vivo. La ripresa non era lontanissima, ma non era neanche dietro l’angolo. Non era un uomo felice quando chiuse gli occhi l’ultima volta, troppi dolori nella sua vita. Ma di sicuro aveva un grandissimo orgoglio per come l’aveva vissuta. Per dove era arrivato e per come ci era arrivato.
Enzo Anselmo Ferrari era nato a Modena il 18 febbraio 1898, ma a causa di una violenta nevicata suo padre Alfredo, un meccanico che lavorava per le Regie Ferrovie, era potuto andare a registrarlo all’Anagrafe soltanto due giorni dopo. Fu l’unica volta in tutta la sua vita in cui l’uomo il cui nome sarebbe diventato sinonimo di velocità sarebbe arrivato in ritardo da qualche parte. Fin da ragazzo fu affascinato dalle corse automobilistiche, il nuovo mito nascente del Ventesimo secolo, non solo sportivo. I Futuristi, la corrente letteraria che andava per la maggiore, cantavano le gesta epiche dei cavalieri del volante. La macchina da corsa insieme al cavallo di ferro, al treno, era il simbolo di un paese e di una generazione che lottavano per uscire dai secoli bui e immutabili della vita contadina. Tutto si era messo improvvisamente a correre, quando il giovane Enzo Ferrari si affacciò all’adolescenza, diventando corrispondente per la Gazzetta dello Sport dalla sua città e cominciando a prendere confidenza con i motori sulla vettura di famiglia, una Diatto 3 litri.
Tutto correva, ma non sempre nella direzione giusta. Negli anni convulsi e drammatici della Prima Guerra mondiale, Enzo perse a breve distanza il padre ed il fratello maggiore, Alfredo junior. Una pleurite in compenso lo salvò dalle trincee, e lo rimandò a casa, orfano e disoccupato. La storia ha strani incroci a volte. Una delle prime porte a cui bussò per trovare lavoro fu quella della FIAT, affermatasi nel frattempo come la massima industria italiana grazie alle commesse di guerra ed alla nascente motorizzazione del Regno d’Italia. Ottenne un rifiuto, e per tutta la vita se lo sarebbe ricordato, non riuscendo mai a nutrire sentimenti veramente positivi per quella che sarebbe diventata un giorno la sua partner d’eccellenza.
Fu assunto alla fine da una piccola impresa meccanica di proprietà di un amico, e con essa cominciò a correre. Dal 1920 entrò nella scuderia corse Alfa Romeo. Nel 1923 arrivò la prima vittoria, al Gran premio del Circuito del Savio, nei dintorni di Ravenna. Con la Coppa, arrivò anche qualcosa di ancora più importante. Alla corsa aveva assistito la contessa Paolina Biancoli, madre di Francesco Baracca, il leggendario pilota di aviazione italiano eroe e vittima della Grande Guerra. Fu talmente colpita da quel pilota d’auto così giovane, che forse le ricordava il figlio, da fargli dono di quel simbolo leggendario che l’asso dell’aria aveva avuto fino alla sua ultima missione sulla carlinga del suo aereo: «Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna».
La leggenda di Enzo Ferrari cominciò così, e lo portò ad attraversare tutto il Ventesimo Secolo fino a diventare il prodotto migliore, più prestigioso di quel Made in Italy di cui una volta c’era di che essere giustamente orgogliosi. Dopo gli anni dell’Alfa, nei quali corse accanto a miti come Nuvolari, Campari, Ascari, dopo il ritiro della prestigiosa scuderia milanese dalle corse e la decisione di fondare una prima azienda personale, l’Auto Avio Costruzioni (sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale grazie al trasferimento nello stabilimento decentrato di Maranello), nel 1947 decise di dare il proprio nome alla propria scuderia. Non poteva immaginare, ma forse allora soltanto sognare di avere fondato la squadra corse più famosa e prestigiosa di tutti i tempi, quella che avrebbe prodotto da allora in poi le macchine più belle, vincenti, e desiderate da tutti, sportivi e non, la Nazionale Rossa per tutti gli italiani appassionati di corse automobilistiche, la Scuderia del Cavallino Rampante: la Ferrari, appunto.
Nel 1950 prese il via il Campionato Mondiale di Formula Uno. All’inizio la rediviva Alfa Romeo fece pagar dazio a tutti, poi il figliol prodigo di Maranello la mise in riga. Il primo Gran premio fu vinto dalla Ferrari a Silverstone, in Gran Bretagna, nel 1951 con Froilan Gonzales. Il primo titolo mondiale arrivò l’anno dopo con Alberto Ascari. Da allora, Enzo Ferrari avrebbe visto trionfare i suoi piloti 9 volte, e 15 la sua casa costruttrice.
Enzo Ferrari con Niki Lauda e Luca Cordero di Montezemolo
Grandi gioie, ma anche grandi dolori, non fossero bastati quelli che avevano funestato la sua adolescenza. Il figlio Dino gli morì nel 1956 a causa della distrofia muscolare. Piloti che aveva amato come figli, Alberto Ascari, Lorenzo Bandini, Gilles Villeneuve morirono mentre correvano al volante di una sua monoposto. Ad un quarto, Niki Lauda, colui che riportò il titolo mondiale a Maranello nel 1975 dopo un digiuno di 14 anni, andò bene per miracolo, nel rogo del Nurburgring il 1° agosto 1976.
Ebbe una vita privata molto tormentata anche dal punto di vista sentimentale, il suo secondo figlio Piero nacque da una relazione extraconiugale con Lina Lardi, e fu riconosciuto soltanto in età adulta. Enzo Ferrari è sepolto a San Cataldo di Modena, vicino alla tomba del figlio Dino, a cui è intitolato l’autodromo di Imola, sede del gran premio di San Marino. Dopo la sua scomparsa, la guida della scuderia fu di fatto assunta dall’Avvocato, quel Gianni Agnelli che era diventato partner economico dell’Ingegnere fin dalla fine degli anni sessanta, che proprio in quella circostanza aveva lanciato il giovane manager Luca Cordero di Montezemolo, all’epoca del vittorioso mondiale di Niki Lauda e Clay Regazzoni.

La Ferrari doveva attendere per un lungo periodo, assai più lungo di quello intercorso tra John Surtees e Niki Lauda, prima che Michael Schumacher succedesse al Jody Scheckter vittorioso nel 1979, tornando a tingere tutto il mondo di rosso. Il resto, più che storia, è leggenda.

mercoledì 13 agosto 2014

Il Grande Sonno

Si chiamava Betty Jane Perske. Suo padre era polacco, sua madre rumena, entrambi di religione ebraica, lei era nata nel 1924 e poco dopo avevano trovato scampo negli Stati Uniti. A Ellis Island, gli agenti dell’immigrazione trovarono più semplice registrarla con il cognome della madre, Weinstein Bacall (letteralmente “bicchiere di vino”).  Laureen fu un nome d’arte, il resto lo fece il destino: Leslie Howard, Bette Davis, l’Accademia di Arti Drammatiche, Broadway, e alla fine Howard Hawks.
Il grande regista cercava una giovane attrice da affiancare al mito, Humphrey Bogart, nel film Acque del sud, uno di quei war movie con cui Boogey dava il suo contributo alla causa. Dopo Casablanca, il capolavoro immortale con cui aveva convinto anche il più scettico e isolazionista degli americani da che parte stare, aveva continuato a fare la sua parte. Ci voleva una compagna alla sua altezza per mandarlo nelle acque della Martinica francese a combattere i collaborazionisti di Vichy.
Difficile trovare qualcuna che riuscisse a far dimenticare Ingrid Bergman, la leggendaria compagna di Roberto Rossellini, la moglie di Viktor Laszlo, colei per la quale Sam avrebbe continuato a suonare As time goes by all’infinito.
Eppure c’era. Laureen era bella, brava e capace di fulminargli il cuore. Laureen aveva 19 anni, Boogey 25 più di lei. La sposò e rimase l’unico grande amore della sua vita, anche se dal 1957 la lasciò vedova perché le tante sigarette fumate dentro e fuori il set reclamarono alla fine il tributo anche al più grande di Hollywood.
Sono passati quasi sessant’anni, la vita è andata avanti per Laureen fino alla notte scorsa. La vita va sempre avanti e offre tante vie d’uscita che in realtà non portano da nessuna parte. Se hai amato Humphrey Bogart, non puoi far altro che aspettare come meglio ti riesce il giorno in cui lo riabbraccerai di nuovo. Finché la notte del 13 agosto 2014 finalmente il destino ti accontenta.
Da stanotte Laureen è di nuovo tra le braccia di Boogey. Il cerchio si è chiuso. Il grande sonno, la Signora che alla fine viene inesorabilmente a chiedere conto delle nostre vite, finalmente ha fatto giustizia. E il finale, che lo abbia scritto Raymond Chandler o dio solo sa chi, è per forza quello giusto.

Here’s looking at you, kid. Eravate così belli che dopo di voi andare al cinema è stata una continua lotta con la nostalgia.

Quel Muro, dentro di noi

Berliner Mauer, antifaschistischer Schutzwall. Il Muro di berlino, barriera di protezione antifascista, fu costruito nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961. Un’opera imponente, di quelle che riescono solo ai tedeschi, o a qualche civiltà del passato. L’Impero Cinese costruì la Grande Muraglia contro gli Jung Nu, gli Unni, e riuscì a tenerli fuori dalle sue terre, spingendoli verso quelle dell’Impero Romano, che non avendo fatto altrettanto collassò. L’Impero Romano aveva costruito il Vallo di Adriano, e finché esso fu difeso dalle Legioni, riuscì a tenere Pitti e Scoti lontano dalla civile Britannia.
13 agosto 1961
Walter Ulbricht, messo da Stalin a governare la DDR (Deutsche Demokratische Republik) nel 1947, aveva tentato per anni di impedire l’emorragia di cittadini della Germania Democratica verso la Germania “fascista”, cioè quella che era controllata dagli americani e dai loro alleati e che secondo la sua propaganda si era liberata di Hitler per cadere sotto il tallone di un regime altrettanto reazionario e nemico del popolo. Nel ’47, la Cortina di Ferro, secondo la definizione di Winston Churchill, si era stesa sull’Europa dell’est, sui territori controllati dall’Armata Rossa alla fine del secondo conflitto mondiale. Restava solo un punto debole: Berlino.
Secondo gli accordi della Conferenza di Potsdam nel luglio 1945, ciascuna potenza avrebbe controllato dopo la guerra (e influenzato nelle scelte politiche) il territorio in cui erano arrivati i rispettivi eserciti alla data del 7 maggio 1945, giorno di cessazione delle ostilità. Con una eccezione, la capitale tedesca, pur essendo ampiamente nella zona liberata dall’Armata Rossa (arrivata nei sobborghi di Berlino negli ultimi giorni di aprile) doveva essere sottoposta ad un regime particolare, un governo quadripartito tra le quattro potenze vincitrici, USA, URSS, Gran Bretagna e Francia.
Checkpoint Charlie
Lo scoppio della Guerra Fredda mise subito in crisi questa sistemazione. L’Unione Sovietica (che aveva provveduto a insediare governi amici in tutti i territori controllati, compresa la fetta di Germania di competenza) tentò già nel 1948 una soluzione di forza della situazione tedesca, chiudendo il corridoio che da Berlino conduceva alla Germania Ovest. Gli Alleati risposero con un ponte aereo che rifornì la ex capitale tedesca per circa un anno, prima che i sovietici si rendessero conto dell’inutilità e della impopolarità della loro azione.
Di fatto, però, Berlino rimaneva una spina nel fianco del loro regime. Tra le due metà della ex capitale imperiale si poteva passare dall’Est all’Ovest, dal Comunismo al Capitalismo. Molte famiglie erano divise in due dall’assetto post-bellico e desideravano ricongiungersi. Molte persone si stavano rendendo conto che il paradiso dei lavoratori era più qualcosa di simile ad un inferno in terra, e avendone abbastanza dopo aver subito anche l’inferno nazista desideravano saltare il confine, allora indifeso.
A ciò decisero di porre rimedio le autorità della DDR nell’estate del 1961. Ulbricht ordinò la costruzione del Muro, che fu ultimato in una notte. La mattina del 13 i berlinesi scoprirono che la loro città era divisa in due. Nei mesi e negli anni successivi, tedeschi, europei e perfino americani scoprirono che il mondo, la loro coscienza e perfino la loro anima erano divisi in due. L’equilibrio del terrore e la divisione del mondo tra le due superpotenze rendevano il mondo più facile da governare, ma anche molto meno piacevole per viverci. E l’impossibilità di fare una guerra vera costringeva a uno stato di guerra sottintesa permanente. La Guerra Fredda.
La celebre foto di peter Leibing, che coglie il momento
in cui il Vopo Konrad Schumann salta il Muro verso ovest
Il muro era lungo più di 155 km. Dopo la costruzione iniziale, venne regolarmente migliorato. Nel giugno 1962 venne costruito un secondo muro all'interno della frontiera destinato a rendere più difficile la fuga verso la Germania Ovest, fu così creata la cosiddetta striscia della morte. Inizialmente i punti di attraversamento erano più di uno. In seguito, rimase praticamente solo quello che sarebbe stato consegnato alla leggenda con il nome di Checkpoint Charlie. Una frontiera dell’anima per più generazioni, prima ancora che un confine tra due mondi in guerra.
Il 26 giugno 1963, pochi mesi prima di essere sacrificato a questa logica di guerra, il presidente americano John Fitzgerald Kennedy rese omaggio ai berlinesi e a tutti coloro che si disponevano a vivere il trentennio successivo da un lato o dall’altro della Cortna di Ferro. Ich bin ein berliner, la sua frase e il suo discorso rimangono la testimonianza più efficace contro il mondo storto nato dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale e dai sogni deviati di un’umanità ancora non vaccinata contro i totalitarismi. Ma il mondo diviso e le due Germanie continuarono ad esistere fino alla fine degli anni 80. Molti altri conflitti, dopo quello estremo scongiurato per Cuba nel 1962, dovevano essere vissuti sulla pelle dell’umanità prima che il Comunismo dicesse basta e il Capitalismo scoprisse di non avere in realtà vinto niente.
Nel 1989, Erich Honecker (succeduto ad Ulbricht) ed il suo regime erano all’agonia. Al Kremlino c’era da qualche anno un uomo, Michail Gorbaciov, che non concepiva più di nascondere la verità ai popoli di oltre Cortina. La libertà era altrettanto essenziale del pane, per l’uomo, e se il Comunismo non poteva garantirla, pazienza, che seguisse il suo destino. In tutti i paesi del Patto di Varsavia, dalla Polonia alla Cecoslovacchia all’Ungheria alla Germania Est, si susseguivano le manifestazioni di protesta, e carri armati per soffocarle non ce n’erano più, se li era mangiati tutti l’Afghanistan, Vietnam sovietico, e la crisi economica del regime che non aveva più piani quinquennali per mandare avanti un’economia allo spasimo.
9 novembre 1989
Il 9 novembre, finalmente, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il Governo della Germania Est annunciò che le visite a Berlino Ovest (e quindi nella Repubblica Federale) sarebbero state permesse; dopo questo annuncio una moltitudine di cittadini dell'Est si arrampicò sul muro e lo superò, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall'altro lato in un'atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usato dell'equipaggiamento industriale per rimuovere quasi tutto quello che era rimasto. I frammenti del Muro vengono commerciati ancora oggi, e il prezzo può variare a seconda della grandezza di questi.
La caduta del muro di Berlino, altrettanto improvvisa della sua edificazione, aprì la strada per la riunificazione tedesca, che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990, quando il Cancelliere della Repubblica Federale della Germania Ovest Helmut Khol annunciò la ricostituzione dello stato tedesco unitario e la ritrasposizione della sua capitale là dove volevano sia la storia che il sentimento del popolo tedesco: a Berlino. 
Il Patto di Varsavia, la Cortina di Ferro e la metà del mondo controllata dalla superpotenza sovietica comunista si erano dissolti come neve al sole nei giorni successivi al crollo di quel muro che aveva diviso non soltanto una città tedesca, ma anche le coscienze e le anime di tutti i cittadini europei.
Durante i 28 anni della sua esistenza, in accordo con i dati ufficiali, furono uccise dalla Volks Polizei della DDR, i famigerati Vopos, almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest. Alcuni studiosi sostengono che furono più di 200 le persone uccise mentre cercavano di raggiungere Berlino Ovest o catturate ed in seguito giustiziate.




«Ci sono molte persone al mondo che non comprendono, o non sanno, quale sia il grande problema tra il mondo libero e il mondo comunista. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che il comunismo è l'onda del futuro. Fateli venire a Berlino! Ci sono alcuni che dicono che, in Europa e da altre parti, possiamo lavorare con i comunisti. Fateli venire a Berlino! E ci sono anche quei pochi che dicono che è vero che il comunismo è un sistema maligno, ma ci permette di fare progressi economici. Lasst sie nach Berlin kommen! Fateli venire a Berlino! [...] Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso di dire: Ich bin ein Berliner! (Io sono un Berlinese)». [John Fitzgerald Kennedy]