Mamma Tonina ce l’ha fatta. Sono
passati dieci anni da quel 14 febbraio in cui suo figlio, il campione più amato
e rimpianto dagli italiani, fu ritrovato morto nel bilocale D5 del residence Le Rose a Rimini. Dieci lunghi anni
durante i quali é stata consegnata agli archivi della cronaca e ormai della
storia un’unica versione. Marco Pantani, la cui carriera leggendaria era stata
spezzata da valori di ematocrito troppo alti alla vigilia del Mortirolo del
1999 e della vittoria del secondo Giro d’Italia consecutivo, non aveva retto a
uno dei mali del secolo. Anzi, a due. La droga e la depressione.
Al pari di un altro personaggio
icona che si commemora negli stessi giorni e la cui scomparsa avvenne in
circostanze forse altrettanto misteriose e mai chiarite in modo convincente,
Marylin Monroe, il Pirata fu in
sostanza accusato (postumo) di non saper far fronte alle avversità della vita a
causa di un carattere fragile. Se nell’anima tormentata della grande attrice
americana le tendenze depressive coltivate da un’infanzia e da un’adolescenza
difficili erano state aggravate, secondo le perizie ufficiali, da un
bipolarismo accentuato che rendeva verosimile un suicidio tentato con successo
al termine di una giornata in cui molti l’avevano vista (per l’ultima volta)
tutto sommato abbastanza allegra, per il campione romagnolo era intervenuto l’uso
massiccio di droga a dar manforte ad analoghe tendenze autodistruttive.
Una volta disarcionato dalla bici,
il Pirata era diventato tossicodipendente, non potendo più riabituarsi ad una
vita normale, né venire a patti con le sanzioni sportive che ve l’avevano ricostretto.
Questa la spiegazione della sua morte, consegnata frettolosamente alla cronaca
ed alla storia da indagini superficiali e da un’attenzione assai distratta da
parte di un’opinione pubblica sempre più affamata di attualità (meglio se con i
connotati scandalistici) e sempre meno disposta a comprenderne le vere ragioni.
Una spiegazione che non aveva mai
convinto una mamma straziata, disperata, ma mai disposta ad arrendersi. E che finalmente
dopo 10 anni ha ottenuto la riapertura delle indagini sulla morte del figlio. ”Me
l’hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito è che avesse scoperto
qualcosa e gli abbiano tappato la bocca. Non vedo altre ragioni. Non mi sono
mai sbagliata su Marco. Così come non credo che siano stati gli spacciatori”.
Che cosa aveva scoperto Marco?
Qualcosa di innominabile legato al mondo dello sport? Erano gli anni, per
esempio, in cui Lance Armstrong minacciava di una “brutta fine” colleghi restii
a piegarsi a giochi sporchi, e lo faceva in strada, alla luce del sole, sotto
gli occhi di tutti. Oppure qualcosa appartenente ad altri mondi, alla cronaca
nera di cui le nostre giornate frettolosamente disattente sono piene? La
Procura di Rimini ha acconsentito a riaprire le indagini, su istanza dei legali
della famiglia Pantani, che negli ultimi mesi hanno corredato la domanda con un
corposo dossier nel quale sono elencate tutte le anomalie e i difetti di un’indagine
che non doveva soddisfare gli inquirenti neppure dieci anni fa, con il corpo di
Marco ancora caldo.
La velocità con cui la Procura ha
acconsentito alla richiesta dell’avv. De Rensis per conto della famiglia
Pantani è sorprendente, sia se messa in relazione con i tempi “normali” della
giustizia italiana sia se confrontata con i precedenti del caso. A parte Mamma
Tonina e i suoi legali, pochi avevano creduto a una spiegazione diversa della
morte del campione rispetto a quella fornita a suo tempo. Ma la perizia legale
di parte, condotta dal prof. Francesco Maria Avato e allegata al dossier dell’avv.
De Rensis, ha evidenziato come sul corpo dello sfortunato corridore romagnolo
ci fossero i segni di ripetute volenze, frutto forse di una lite degenerata in
colluttazione. Ferite che una persona sola, in preda a un’overdose
autoprovocata, non avrebbe mai potuto infliggersi, così come segni di trascinamento
del corpo.
La perizia ha evidenziato inoltre
come la quantità di cocaina presente nell’ organismo di Marco non fosse
compatibile con l’assunzione diretta e volontaria da parte sua, ma piuttosto
con una ingestione forzata, provocata da qualcuno che aveva ridotto la vittima
all’impotenza e che l’aveva costretta a bere la sostanza stupefacente diluita nell’acqua
di una bottiglia. Peraltro ritrovata in camera dalle autorità inquirenti, senza
che nessuno si fosse dato la pena a suo tempo di rilevarne impronte e
provenienza. Anzi, pare che in quella stanza maledetta di impronte non ne
fossero state prese granché, in generale.
Tra le molte incongruenze da
risolvere, ci sono anche le chiamate disperate di Pantani alla reception dell’hotel
con richiesta di intervento dei Carabinieri. Che furono tutte ignorate o
disattese. Marco aveva aperto la porta a qualcuno che conosceva, e quando si
era reso conto che questo qualcuno avrebbe potuto diventare il suo assassino
era troppo tardi. E nessuno aveva risposto alle sue richieste di aiuto.
La Procura di Rimini ha tenuto a
sottolineare che si tratta di un procedimento a carico d’ignoti, sottolineando
che al momento non vi sono indagati. Ma l’ipotesi di reato è senza mezzi termini
quella di omicidio. Marco Pantani fu ucciso, ormai gli elementi raccolti
portano in quella direzione. Come ha sottolineato Davide Cassani, CT della
nazionale azzurra di ciclismo, “se la procura ha riaperto il caso vuol dire che
ci sono delle basi su cui approfondire. Sarebbe bello conoscere la verità su
quanto accaduto, se è diversa rispetto a quella che ci hanno raccontato in
questi 10 anni".
Già, sarebbe bello. Non ci restituirebbe Marco
Pantani, ma il suo buon nome sì. Tutti se lo portano nel cuore, da dieci anni,
a prescindere da come siano andate veramente la sua vita e la sua fine.
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