Robin Mclaurin Williams era
capace di strappare un sorriso a un sasso. Ma alla fine la cosa più difficile
in questa vita è riuscire a far sorridere se stessi, quando di sorridere
proprio non se ne ha più voglia.
Chissà cosa ti è successo,
vecchio amico che per tanto tempo hai allietato i nostri cuori senza forse dare
sollievo al tuo. Come Marylin, alla fine ti sei trovato solo a casa una notte
in cui la vita era un peso troppo grande. Sia stata la tua disperazione, o
qualcuno che le ha dato una mano, non lo sapremo mai. Adesso sei davvero un
professore tra le nuvole, come quel Flubber
che mio figlio ha visto e rivisto cento volte. O prigioniero per sempre di una
favola, come in quel gioco travolgente, Jumanji,
che il mio bambino si riguardava un giorno sì e quell’altro pure gustandosi all’infinito
la tua capacità di cavalcare la follia imbizzarrita di quella grande assurdità
che è la vita, che solo ad un bambino può appunto apparire affascinante come un
film a lieto fine.
Io piuttosto mi commuovevo alle
ultime parole di Adrian Cronauer, alle note struggenti di What a wonderful world con cui si chiude Good Morning Vietnam, il film che dette a te la prima consacrazione
e a me la consapevolezza che la storia non era come ce l’avevano raccontata. Ma
molto più seria e insieme molto più divertente.
Mi commuovevo all’addio degli
studenti al professor John Keating. Quel loro salire sui banchi per vedere il
mondo da una prospettiva diversa. Quella loro rivolta e quella vittoria finale
del capitano, mio capitano. L’attimo fuggente era quello della
nostra vita adulta che stava passando senza che avessimo capito niente né di
Ralph Waldo Emerson e della sua Dead Poets
Society né del resto di quello che ci stava succedendo intorno, proprio
mentre il mondo cambiava per sempre.
Mi commuovevo quando il
segretario delle Nazioni Unite Botha ti annunciava che la tua domanda di
appartenenza alla razza umana era stata finalmente accolta. E tu, Andrew
Martin, che dagli archivi della U.S. Robotics risultavi essere stato acceso
alle 17,00 del 3 aprile 2005, potevi finalmente morire da essere umano come
avevi sempre sognato, poche ore prima di compiere 200 anni. Perché era proprio quello
che dava un senso alla tua vita. Poter finalmente morire.
E io piangevo come un cretino,
perché mio padre era morto per davvero da poco, e nella scena in cui saluti il
tuo padrone e ti si spezza il cuore per il fatto di non essere programmato per
piangere, il tuo volto espressivo che riusciva a riprodurre quello di un robot
drammaticamente privo di espressione faceva da contraltare al mio, che invece
lottava continuamente per nascondere lo strazio che provavo. Ho amato quel film
più di ogni altro che abbia mai visto, e ti ringrazio solo per quello, amico
mio, nonostante tutti i capolavori in cui hai recitato prima e dopo.
E mio figlio intanto rideva,
dietro alle peripezie di Flubber, di Jumanji, come avevo riso io quando ti
vidi apparire nelle vesti di Mork, l’alieno
che ripeteva “Nano Nano”. Uno dei tanti telefilm della nostra infanzia
spensierata, che al pari di Happy Days
era il preludio di grandi carriere e di storie molto più serie.
E ora? C’è qualcosa di strano che
non riesco ad afferrare in questa tua partenza così brusca. Non sono le parole
di quella poverina, Susan Schneider, la tua terza ed ultima moglie, che ha
chiesto rispetto per una privacy che nessuno rispetterà. O il ricordo di un
uomo che riusciva a far sorridere anche i sassi e per cui adesso si dovrebbe
piangere. O la pietà per una povera donna che stanotte e le prossime notti avrà
la parte peggiore. Lasciata sola a chiedersi perché il suo amore per te non è
bastato. Perché la tua disperazione era più forte. Perché te ne sei andato
così. O Dio solo sa come.
No, c’è qualcos’altro, e
navigando in rete alla fine l’ho trovato. L’ho capito. Avevo provato una
sensazione simile tanti anni fa, 30 per la precisione, quando se ne andò John
Belushi. E guarda caso, cosa scopro? Che eri un suo grande amico, e che eri
presente la notte in cui lui perse il suo legame con il mondo, come te due notti
fa, e quella sciagurata gli somministrò la dose letale. Tu eri lì, uno degli
ultimi a vederlo.
C’è chi sostiene che non si
sfugge al proprio destino. O Kharma,
o come diavolo lo si vuol chiamare. Tu eri lì, e alla fine quel “male di vivere”
(nessuno di voi aveva letto Pavese, ma non ce n’era bisogno) ha reclamato anche
te. Che cosa ti ha spinto sulle orme del tuo amico John, fino a riabbracciarlo
su quella nuvola su cui stasera chissà che amene sciocchezze state dicendo
facendo ridere tutto il Paradiso a crepapelle, non lo sapremo mai.
Hai fatto un gran casino, Robin
Mclaurin Williams. Da Mrs. Doubtfire a Jumanji all’Uomo dell’Anno a Peter Pan,
ci vorrà un sacco di tempo per rimettere a posto. Ma in fondo, chi ne ha
voglia? Basta vedere una tua foto per scoppiare a ridere, anche adesso che si
dovrebbe piangere. E questo ha dato e continuerà a dare un gran senso alla tua
esistenza.
Ti sia più lieve la terra di
quanto forse ti è stata la vita.
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