«Se lo puoi sognare, lo
puoi fare». Era una delle frasi preferite dell’Ingegnere, come lo chiamavano per brevità (e rispetto) i suoi
collaboratori. Lui di sicuro i suoi sogni li aveva realizzati tutti, prima di
andarsene alla veneranda età di 90 anni un 14 agosto di 26 anni fa. Non era il
momento migliore per quella sua creatura che portava il suo nome, e il cui marchio
era diventato nel frattempo leggenda, con lui ancora vivo. La ripresa non era lontanissima,
ma non era neanche dietro l’angolo. Non era un uomo felice quando chiuse gli
occhi l’ultima volta, troppi dolori nella sua vita. Ma di sicuro aveva un grandissimo
orgoglio per come l’aveva vissuta. Per dove era arrivato e per come ci era
arrivato.
Enzo Anselmo Ferrari era
nato a Modena il 18 febbraio 1898, ma a causa di una violenta nevicata suo
padre Alfredo, un meccanico che lavorava per le Regie Ferrovie, era potuto andare
a registrarlo all’Anagrafe soltanto due giorni dopo. Fu l’unica volta in tutta
la sua vita in cui l’uomo il cui nome sarebbe diventato sinonimo di velocità
sarebbe arrivato in ritardo da qualche parte. Fin da ragazzo fu affascinato
dalle corse automobilistiche, il nuovo mito nascente del Ventesimo secolo, non
solo sportivo. I Futuristi, la corrente letteraria che andava per la maggiore,
cantavano le gesta epiche dei cavalieri del volante. La macchina da corsa insieme
al cavallo di
ferro, al treno, era il simbolo di un
paese e di una generazione che lottavano per uscire dai secoli bui e immutabili
della vita contadina. Tutto si era messo improvvisamente a correre, quando il
giovane Enzo Ferrari si affacciò all’adolescenza, diventando corrispondente per
la Gazzetta dello
Sport dalla sua città e cominciando a
prendere confidenza con i motori sulla vettura di famiglia, una Diatto 3 litri .
Tutto correva, ma non
sempre nella direzione giusta. Negli anni convulsi e drammatici della Prima
Guerra mondiale, Enzo perse a breve distanza il padre ed il fratello maggiore, Alfredo
junior. Una pleurite in compenso lo salvò dalle trincee, e
lo rimandò a casa, orfano e disoccupato. La storia ha strani incroci a volte.
Una delle prime porte a cui bussò per trovare lavoro fu quella della FIAT, affermatasi
nel frattempo come la massima industria italiana grazie alle commesse di guerra
ed alla nascente motorizzazione del Regno d’Italia. Ottenne un rifiuto, e per
tutta la vita se lo sarebbe ricordato, non riuscendo mai a nutrire sentimenti
veramente positivi per quella che sarebbe diventata un giorno la sua partner d’eccellenza.
Fu assunto alla fine da una
piccola impresa meccanica di proprietà di un amico, e con essa cominciò a
correre. Dal 1920 entrò nella scuderia corse Alfa Romeo. Nel 1923 arrivò la
prima vittoria, al Gran premio del Circuito del Savio, nei dintorni di Ravenna.
Con la Coppa, arrivò anche qualcosa di ancora più importante. Alla corsa aveva
assistito la contessa Paolina Biancoli, madre di Francesco Baracca, il
leggendario pilota di aviazione italiano eroe e vittima della Grande Guerra. Fu
talmente colpita da quel pilota d’auto così giovane, che forse le ricordava il
figlio, da fargli dono di quel simbolo leggendario che l’asso dell’aria aveva
avuto fino alla sua ultima missione sulla carlinga del suo aereo: «Ferrari,
metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà
fortuna».
La leggenda di Enzo Ferrari
cominciò così, e lo portò ad attraversare tutto il Ventesimo Secolo fino a
diventare il prodotto migliore, più prestigioso di quel Made in Italy di cui una volta c’era di che essere giustamente orgogliosi.
Dopo gli anni dell’Alfa, nei quali corse accanto a miti come Nuvolari, Campari,
Ascari, dopo il ritiro della prestigiosa scuderia milanese dalle corse e la
decisione di fondare una prima azienda personale, l’Auto Avio Costruzioni
(sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale grazie al trasferimento nello
stabilimento decentrato di Maranello), nel 1947 decise di dare il proprio nome
alla propria scuderia. Non poteva immaginare, ma forse allora soltanto sognare di
avere fondato la squadra corse più famosa e prestigiosa di tutti i tempi,
quella che avrebbe prodotto da allora in poi le macchine più belle, vincenti, e
desiderate da tutti, sportivi e non, la Nazionale Rossa per
tutti gli italiani appassionati di corse automobilistiche, la Scuderia del Cavallino
Rampante: la Ferrari, appunto.
Nel 1950 prese il via il
Campionato Mondiale di Formula Uno. All’inizio la rediviva Alfa Romeo fece
pagar dazio a tutti, poi il figliol prodigo di Maranello la mise in riga. Il
primo Gran premio fu vinto dalla Ferrari a Silverstone, in Gran Bretagna, nel
1951 con Froilan Gonzales. Il primo titolo mondiale arrivò l’anno dopo con
Alberto Ascari. Da allora, Enzo Ferrari avrebbe visto trionfare i suoi piloti 9
volte, e 15 la sua casa costruttrice.
Enzo Ferrari con Niki Lauda e Luca Cordero di Montezemolo |
Grandi gioie, ma anche
grandi dolori, non fossero bastati quelli che avevano funestato la sua
adolescenza. Il figlio Dino gli morì nel 1956 a causa della distrofia muscolare. Piloti
che aveva amato come figli, Alberto Ascari, Lorenzo Bandini, Gilles Villeneuve
morirono mentre correvano al volante di una sua monoposto. Ad un quarto, Niki
Lauda, colui che riportò il titolo mondiale a Maranello nel 1975 dopo un
digiuno di 14 anni, andò bene per miracolo, nel rogo del Nurburgring il 1°
agosto 1976.
Ebbe una vita privata molto
tormentata anche dal punto di vista sentimentale, il suo secondo figlio Piero
nacque da una relazione extraconiugale con Lina Lardi, e fu riconosciuto
soltanto in età adulta. Enzo Ferrari è sepolto a San Cataldo di Modena, vicino
alla tomba del figlio Dino, a cui è intitolato l’autodromo di Imola, sede del
gran premio di San Marino. Dopo la sua scomparsa, la guida della scuderia fu di
fatto assunta dall’Avvocato, quel Gianni Agnelli che
era diventato partner economico dell’Ingegnere fin
dalla fine degli anni sessanta, che proprio in quella circostanza aveva
lanciato il giovane manager Luca Cordero di Montezemolo, all’epoca del
vittorioso mondiale di Niki Lauda e Clay Regazzoni.
La Ferrari doveva attendere
per un lungo periodo, assai più lungo di quello intercorso tra John Surtees e Niki
Lauda, prima che Michael Schumacher succedesse al Jody Scheckter vittorioso nel
1979, tornando a tingere tutto il mondo di rosso. Il resto, più che storia, è
leggenda.
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