La sera del 3 febbraio 1865 alla
stazione fiorentina di Santa Maria Novella arrivò un viaggiatore d’eccezione,
nientemeno che Sua maestà Vittorio Emanuele di Savoia primo Re d’Italia. Era un
viaggio di sola andata, il Re non sarebbe più tornato nella natia Torino, e
portava con se lo status di capitale del Regno per la città dove aveva avuto
sede fino a pochi anni prima il potere del Granducato di Toscana.
Torino non l’aveva presa bene,
ovviamente. Dopo la firma della convenzione italo-francese del 15 settembre
1864 nella ancora per poco capitale del neonato regno d’Italia erano scoppiati
disordini sanguinosi, con 52 morti e 187 feriti. Addirittura erano state prese
d’assalto le carrozze dirette a palazzo reale. Si preferì soprassedere sulle
responsabilità, in considerazione della necessità di non esacerbare gli animi
in una città che vedeva soprattutto lo spostamento della corte savoiarda come
un tradimento imperdonabile.
Dall’anno Mille in poi, Torino
era stata un possedimento dei Savoia. Dalla metà del Cinquecento era diventata
la capitale dei loro possedimenti. E quindi la prima capitale di quei
possedimenti che dal 13 marzo 1861 coincidevano in buona parte con lo stato
nazionale unitario italiano. In realtà, il tradimento nasceva da una necessità
storica imprescindibile.
«La nostra stella, o Signori, ve
lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli
hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno
italico.». Era stato un piemontese doc, Camillo Benso Conte di Cavour suddito fedelissimo ed ossequioso di
Vittorio Emanuele II, a pronunciare queste parole. E a scoprire le carte fino a
quel momento segretamente custodite nell’animo di ogni patriota risorgimentale.
C’era una sola capitale possibile per lo stato che stava nascendo. Il destino
di Roma era scritto appunto nelle stelle, oltre che nella storia bimillenaria
della città che aveva dominato il mondo conosciuto.
Nel 1864 Il Conte di Cavour non c’era
più, ma i suoi successori continuavano saggiamente la sua accorta politica. Il
Risorgimento era ancora di là da concludere, con le Tre Venezie ancora in mano
austriaca e Roma con il Lazio ancora in mano al Papa, sorretto più che dalle
Guardie Svizzere dagli chassepots, i fucili a ripetizione dell’esercito di colui che purtroppo era
anche giocoforza il miglior alleato dell’Italia Unita: Napoleone III. L’ex
rivoluzionario divenuto imperatore era sostenuto in patria da un’opinione
pubblica clerico-conservatrice, e a sua volta sosteneva il Papa nella sua
pretesa di mantenere il potere temporale sulla Città Eterna.
Piazza del Mercato Vecchio |
La Convenzione del 1864 fu un
equivoco voluto da ambo le parti. A Parigi si intese come la rinuncia a Roma, a
Torino invece come un passo avanti decisivo verso di essa. Un passo che portava
inevitabilmente a Firenze. L’ex capitale del Granducato di Toscana era una
predestinata. Non soltanto perché era sulla strada di Porta Pia (una strada che
gli italiani avrebbero dovuto attendere di portare a termine per sette anni,
fino alla sconfitta di Napoleone a Sedan nella guerra franco-prussiana, con la
battuta d’arresto sanguinosa dei garibaldini a Mentana), ma anche perché –
lungo quella strada – era l’unica città, con Venezia ancora in mani straniere, che
potesse vantare una classe dirigente di levatura pari a quella piemontese.
Piazza Vittorio Emanuele II |
La città in riva all’Arno accolse
la designazione, per dirla alla fiorentina, con poco o punto entusiasmo. Il
Conte Girolamo Cantelli, arrivato come superprefetto incaricato di preparare il
trasferimento di capitale, avrebbe annotato di essere rimasto «stupefatto;
credeva di trovare una città entusiasta, tripudiante, animata da un grande
fervore di iniziative e invece incontrò molta indifferenza e una discreta
preoccupazione».
Perfino un vate del Risorgimento più
romantico e retorico come Giosué Carducci non avrebbe fatto mistero delle sue
prosaiche perplessità: «Il trasporto della capitale l’approvo. (...) Non nego
che, come fiorentino antico e artista, penso con orrore alla città di Dante e
di Giano, di Machiavello, di Michelangelo, e di Ferruccio, cambiata in
un’uggiosa capitale di uno stato accentrato!».
Firenze sarebbe rimasta la poco
entusiasta capitale italiana fino al 1871. Il 20 settembre dell’anno precedente
il bersaglieri di Cadorna avevano sfondato le mura di Roma a Porta Pia,
mettendo fine a millecinquecento anni di potere temporale del Papa e
ricongiungendo alla nazione quella che tutti sapevano essere destinata a
diventarne la capitale definitiva, non solo in ossequio al testamento politico
lasciato in eredità alla Nazione da Camillo Benso conte di Cavour, artefice del
nostro Risorgimento.
Nel salone del Cinquecento, adibito ad aula per la Camera dei Deputati, viene aperta solennemente da Vittorio Emanuele la nona legislatura del parlamento |
Il Conte – come detto - non c’era
più allorché i bersaglieri dilagarono per le strade di Roma, il parlamento
italiano per parte sua fu ben lieto di non poter fare altro che prendere atto
della realtà, che concludeva le guerre di Indipendenza lasciando in sospeso
soltanto le questioni di Trento e Trieste. Il 3 febbraio Vittorio Emanuele era
arrivato a Firenze con la sua corona e la sua corte, il 3 febbraio – stavolta
del 1871 – se ne ripartì, diretto al Quirinale dove da allora avrebbero
risieduto tutti i capi di stato italiani, monarchi e presidenti.
I sei anni in cui era stata
capitale avevano lasciato Firenze profondamente cambiata. L’Arco di Trionfo del
Micheli che corona i portici di Piazza della Repubblica, allora Piazza Vittorio
Emanuele II (i vecchi fiorentini hanno continuato a chiamarla così a lungo
anche nell’ultimo dopoguerra, Piazza Vittorio), è adornato dalla celebre
scritta che riporta i versi di Isidoro Del Lungo: “L’antico centro della
città da secolare squallore a vita nuova restituito”. La storia di Firenze
ruota tutta intorno a questa piazza e a questa scritta.
Dal giorno in cui i legionari di Giulio
Cesare si accamparono per la prima volta su queste rive dell’Arno per costruire
il centro da cui ne avrebbero dominato la valle a spese dei vecchi e riottosi
insediamenti etruschi, la Piazza che nel 1946 sarebbe stata intitolata alla
neonata repubblica italiana era stata il centro di quel centro, come testimonia
ancor oggi la colonna che segna il punto in cui, più o meno, si incrociavano
secondo lo schema classico romano il cardo ed il decumano,
gli assi intorno a cui, in parallelo, si sarebbero sviluppate tutte le altre
strade della città. Più o meno, le odierne Via Roma e Calimala da un lato, Via
Strozzi e Via Speziali dall’altro.
Quello schema urbanistico
ovviamente non esiste più. E’ uno dei tanti che stanno sotto la pavimentazione
del centro, e che gli archeologi hanno potuto rinvenire e studiare in varie
circostanze, come quando nel 1981 si trattò di rifare la pavimentazione di
Piazza Signoria, con annessi dibattiti e soprattutto immancabili polemiche. La civitas romana
non esisteva più ben prima che gli architetti come Micheli mettessero mano al
risanamento del “secolare squallore”.
Al tempo dell’istituzione del
libero Comune, più o meno ai tempi di Dante Alighieri per capirsi, il
geometrico reticolato di strade costruito dai soldati di Cesare era stato
sostituito dal più caotico e se si vuole più pittoresco accumulo di vicoli,
vicoletti, anfratti e piazzette che rendeva la città più funzionale alle nuove
esigenze medioevali: quella di ripararsi dalle intemperie (contro cui gli
uomini dell’Anno Mille avevano disimparato a usare gli accorgimenti dei
predecessori Romani) e quella di rendere più difficoltosa un’invasione da parte
di un esercito nemico, che nel dedalo di viuzze che correva intorno a
Battistero e Palazzo del Comune avrebbe finito per perdersi.
Nel 1871, gli architetti
partirono infine da Firenze al seguito di Sua Maesta Re Vittorio Emanuele
diretti a quella che sarebbe diventata la sua capitale definitiva. Attesi da
una nuova e ancora più grande opera di restituzione a vita nuova da secolare
squallore, al termine della quale anche il volto di Roma sarebbe profondamente
cambiato. Ed il panorama delle professioni italiane si sarebbe arricchito di
una nuova categoria destinata ad un prospero futuro: i palazzinari.
A Firenze rimasero i ricordi di
sei anni contraddittori e interlocutori, insieme a quelli di ormai scomparse
vestigia di un passato glorioso e irripetibile. Sotto le scarpe dei turisti ci
sono infatti Giulio Cesare, Dante Alighieri, e soprattutto quella lunga
successione di signori lungimiranti e illuminati che da Cosimo Il Vecchio a
Pietro Leopoldo, passando per Lorenzo il Magnifico e Cosimo il Primo Granduca, avevano
fatto di Firenze il faro dell’Umanità che è rimasto fino al Ventesimo Secolo,
quando il centro dell’elaborazione culturale ed artistica si spostç – grazie ai
tempi nuovi – dal signorile Palazzo Pitti al popolare ma raffinato Caffè Le
Giubbe Rosse, sempre nella fatidica Piazza Vittorio, che un giorno – in
ossequio al corso inesorabile della Storia – sarebbe stata intitolata alla
Repubblica.
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