Non è un vento malvagio quello che spira alle spalle della Fiorentina. Dall’urna di Nyon esce la Dinamo Kiev. Si ha un bel dire che a questo punto l’una vale l’altra. C’era di peggio, ed è meglio trovarlo eventualmente più avanti, in una partita secca dove tutto può succedere. Varsavia è ancora lontana, ma Kiev è più di strada di Wolfsburg o Siviglia o San Pietroburgo. Quanto a Napoli, abbiamo un conto aperto grosso come una casa, quest’anno siamo preparati ai “borseggi”, e speriamo di regolarlo a Roma, in quell’Olimpico che ormai è diventato un campo amico, a condizione che non ci sia di mezzo la Lazio.
Si torna a Kiev per la terza volta nella nostra storia. Ere fa, toccò alla Fiorentina che aveva appena vinto il secondo e ultimo scudetto andare a giocare nella capitale ucraina un ottavo di finale di Coppa dei Campioni, allora si chiamava così e la giocava solo chi aveva vinto il proprio campionato nazionale. La Fiorentina era stata la prima squadra italiana nel 1957 a giocarne una finale. Finì 2-0 per un Real Madrid che non avrebbe avuto bisogno di favoritismi arbitrali, eppure li ebbe. Marcos Alonso sa tutto, suo nonno c’era.
Il 12 novembre 1969 a Kiev l’inverno russo era alle porte, eppure la Fiorentina di Bruno Pesaola detto il Petisso (in castigliano, il piccoletto) non tremò. A quei tempi il calcio sovietico era ostico per quello italiano, la Nazionale azzurra aveva perso ai precedenti mondiali inglesi contro quella della falce e martello. Segnò Chiarugi, pareggiò Serebrianikov, Maraschi riportò in vantaggio i viola. A Firenze due settimane dopo, sotto una bussata d’acqua di quelle che si prendono solo allo Stadio (allora denominato semplicemente Comunale), bastò uno 0-0 per continuare la corsa. Che purtroppo era destinata ad interrompersi al turno successivo. I quarti si giocarono a marzo, la Fiorentina era in fase calante e il Celtic di Glasgow la eliminò con 3 gol all’andata e limitando i danni a 1 solo subito al ritorno in Toscana.
Passarono gli anni, la Fiorentina di Baglini diventò un ricordo sbiadito. Finché Pontello provò a rinverdirne i fasti. Gli andò male in campionato almeno due volte, ma in Coppa UEFA il 1989-90 sembrò finalmente l’anno buono. I viola avevano vinto il primo e unico titolo internazionale nel 1961, la prima edizione di Coppa delle Coppe (allora riservata ai vincitori delle Coppe di Lega nazionali). Poi basta.
Quell’anno, la Fiorentina stentò in campionato, salvandosi solo all’ultima giornata con un 4-1 all’Atalanta in cui concluse la sua carriera quel giorno un certo Cesare Prandelli. Ma per uno dei misteri tipici del calcio, in Coppa la Fiorentina volava. Soprattutto perché aveva in squadra uno dei migliori giocatori del mondo di quell’epoca, Robertino Baggio, che le difese avversarie non sapevano marcare. Dopo aver fatto fuori Atletico Madrid e Sochaux (e non era granché più facile di adesso, se ci volete credere), fummo sorteggiati di nuovo a Kiev, di nuovo all’inizio dell’inverno.
Se era stata dura nel 1969, stavolta lo fu ancora di più. Erano gli ultimi anni dell’Unione Sovietica, paradossalmente gli anni d’oro del suo calcio. Erano gli anni in cui l’URSS metteva paura al Brasile, e la Dinamo Kiev forniva a quella nazionale buona parte dei suoi effettivi, fuoriclasse assoluti, come Oleg Protassov e Igor Belanov, uno dei pochi russi capaci di vincere il Pallone d’Oro oltre a Oleg Blochin e Lev Jascin.
Erano gli anni di Valery Lobanovs’kyi, il colonnello dell’Armata Rossa che allestì una delle più forti squadre di quei tempi, capace di arrivare ad un passo dalla vittoria dell’Europeo contro Gullit, Van Basten & C. Contro questi avversari, la Fiorentina fece un mezzo miracolo di cui non la accreditava capace pressoché nessuno. I ragazzi del povero Bruno Giorgi, recentemente scomparso, superarono se stessi vincendo a Firenze con un rigore di Baggio, e resistendo nel gelo di Kiev agli assalti ucraini meglio di quanto avevano saputo fare Napoleone prima e Hitler poi. 0-0, un risultato decisivo sulla strada di quella doppia finale che tra Torino ed Avellino avrebbe proposto purtroppo avversari di ben altra natura, per i viola del tempo insormontabili.
L’inverno è passato ormai, ed anche il calcio ucraino non è più quello di prima, ora che la pallina a Nyon si è aperta rivelando il nome del prossimo avversario dei ragazzi di Montella. Stavolta siamo favoriti noi, e se a Kiev qualcuno ha visto le ultime partite della Fiorentina di certo a quest’ora sta sagramentando per un sorteggio non certo benevolo. L’altra sensazione è che veramente dietro le spalle dei viola stia soffiando un vento ben diverso rispetto al passato anche recente.
Stiamo a vedere. Nel frattempo domani si va a Udine a giocare finalmente una partita normale. Una di quelle che possono anche andar male, ma solo se si prende sottogamba un avversario sulla carta inferiore ma agguerrito, magari anche soltanto per stanchezza mentale (quella fisica sarebbe anche comprensibile). Udine ci ha fatto piangere del resto tante volte, con il vecchio Di Natale e la buonanima di Guidolin, recente pensionato. Sempre in tema di amarcord, si cominciò tanti anni fa. Noi avevamo in squadra Daniel Passarella e Ciccio Graziani, mostri sacri dei primi anni 80. Loro avevano Paolino Pulici, gemello d’attacco di Ciccio nell’ultimo Torino capace di vincere uno scudetto nel 1976 con la vecchia conoscenza Gigi Radice in panchina. Finì 2-1 per loro qui a Firenze, l’unico gemello che segnò fu quello dell’Udinese.
Ha tanti conti da regolare la Fiorentina. Vediamo quanti riesce a saldarne di qui alla fine. Dio no xé furlan, si no paga oggi paga doman, dicono a Trieste dove non amano i friulani (c’è lo stesso rapporto che c’è da queste parti fra Pisa e Livorno). Poi la pausa, e si apre l’uovo di Pasqua che speriamo abbia per noi aficionados viola ancora tante graditissime sorprese.
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