8 marzo 2015, è passato
un altro anno. Il calendario è impietoso, ci ripropone le stesse ricorrenze,
inesorabile nelle scadenze, che ci piaccia o no. Tocca alla Festa della Donna.
Un po’ come la Festa del Lavoro, se dici cosa pensi rischi di passare da retrogrado
o peggio. Se dici come stanno le cose, rischi di trovarti d’accordo con tante e
tanti, anche se non lo ammetteranno mai esplicitamente.
Un anno fa, Paola Stillo scriveva
della condizione delle donne in quella che è diventata una delle frontiere
della civiltà, l’Afghanistan conteso da una modernità appena intravista negli
anni 60 e 70 e dal talebanesimo arrivato in seguito, per i ben noti motivi storico-politici.
Quell’articolo può essere riletto un anno dopo con la stessa partecipazione e
condivisione, anzi con la consapevolezza che le cose, se era possibile, sono
addirittura in via di peggioramento. E non solo per le donne.
L’Afghanistan è un paradigma di
tutta quella parte immensa di mondo dove si discute ancora se alle donne
appartenga un’anima. Non solo Islam, anche se l’Islam fa la parte del leone. Se
si esclude quella parte della società turca, concentrata nella zona di
Istanbul, che si sta opponendo – uomini e donne insieme – ai tentativi di Erdogan
di riportare il paese di Ataturk ai secoli bui, il resto offre un panorama
desolante.
Eppure, è proprio dal mondo
islamico che arrivano le icone di questo 8 marzo 2015. Sono le donne curde di
Kobane, in tuta mimetica ed armate di kalashnikov, che meritano la foto di
copertina. Se perdono la loro battaglia disperata, per loro non c’è il prete o
l’imam o il bramino a imporre loro di chinare la testa, ma piuttosto un destino
ancora più atroce. Vincere o morire. “Vittoria, contro ogni terrore, per lunga
e dura che possa essere la strada, perché senza vittoria non sopravviveremo”,
disse Winston Churchill parlando di libertà nella sua ora più buia e più
grande.
Se cade Kobane, quelle donne sono
attese da un destino inimmaginabile. O forse sì, visto che l’Isis ci inonda di
filmati di ciò che riserva a chi non ossequia il Profeta. Altro che
Afghanistan, o Charlie Hebdo. Se cade quella parte del Medio Oriente che ancora
si rifiuta di velare sempre e comunque il volto delle donne, si torna indietro
ai tempi delle Crociate, del Feroce Saladino, che poi non era così feroce come
questi suoi epigoni spuntati a sorpresa dalle contraddizioni di questo
ventunesimo secolo ancora più assurdo del ventesimo.
L’altra icona di questa festa è
Rania di Giordania. La regina coraggiosa che ha avuto il coraggio di maledire l’Isis
in mondovisione. E’ già difficile per una donna esprimere i propri sentimenti
quando è regina. E’ già difficile farlo in un mondo che si suppone evoluto come
quello occidentale, Lady Diana Spencer l’ha insegnato a tutti con il suo
tragico destino. Figuriamoci una regina araba, per quanto sovrana di uno dei
pochi paesi dell’area islamica che possano aspirare alla qualifica di regime
laico, dopo la sciagurata Primavera Araba.
Ecco, queste sono le foto simbolo
di questa festa che viene da lontano, da un mondo in cui le donne scontavano
una condizione ancora più arretrata di quella degli uomini, che pure erano
servi della gleba. L’8 marzo 1917 le donne di San Pietroburgo andarono incontro
ai cosacchi dello Zar aspettandosi di essere massacrate, un destino comunque
non molto peggiore alla morte per fame imminente, nella Russia messa in
ginocchio dalla Grande Guerra.
Andò bene, i cosacchi non
caricarono, il regime zarista era agli sgoccioli anche per loro. Cominciò la
rivoluzione russa, ma quella data fu consacrata anni dopo come la Giornata
Internazionale della Donna. Ed ognuno prese a dare a questa festa il
significato che meglio – o peggio –credeva.
Ci sono feste che sopravvivono a
se stesse, come i Santi del calendario. L’8 marzo ormai è ridotto all’occasione
per i venditori di mimosa di fare affari. E’ una giornata che – al pari della Festa
del Lavoro – non aiuta per niente chi deve ancora raggiungere l’emancipazione e
non significa più niente per chi crede di averla già raggiunta.
Universi femminili...... |
L’Ex pasionaria femminista
Anselma Dell’Olio si scaglia adesso contro la festa che una volta era sacra,
intoccabile, per lei e per tutte le sue compagne di genere. “Detesto l’8 marzo,
i maschi hanno vinto”.
No, cara Anselma, non sono i
maschi che hanno vinto. Sono le femmine che hanno perso, almeno qui in
Occidente. Sono le donne che hanno venduto parte della loro anima così
faticosamente conquistata (da queste parti solo all’epoca del Concilio di
Trento, metà del sedicesimo secolo) al diavolo del successo.
Se altrove sembra una conquista
inarrivabile togliersi il velo dal viso o guidare la macchina, qui le donne
hanno raggiunto da tempo tutti i feticci esteriori della parità dei diritti.
Hanno sostituito l’uomo in tante situazioni e posizioni di potere al prezzo di
ridursi a fare come l’uomo e peggio dell’uomo quanto ne hanno avuto la
possibilità. La lunga marcia intrapresa nel 1946 con la concessione dei diritti
politici e civili assoluti può dirsi oggi formalmente conclusa. Nella pubblica
amministrazione, le donne ormai occupano gli stessi posti degli uomini in
quantità e qualità. Alla Regione Toscana, per fare un esempio, sono il 60% e le
donne in posizione dirigenziale sono in numero sostanzialmente eguale agli
uomini. Ma a che prezzo?
E’ migliorato il mondo con la
progressiva acquisizione di potere e di influenza delle donne? Si diceva, un
giorno le donne comanderanno e non ci saranno più guerre, una madre non manderà
mai i propri figli a morire consapevolmente. Era uno dei tanti luoghi comuni su
maschilismo e femminismo. Triste risveglio scoprire che è stata una donna a
condannare le prossime generazioni di pensionati a una morte per fame non si sa
quanto orribile, Elsa Fornero, con la sua riforma lacrimevole del regime
pensionistico.
E’ una donna il volto più odioso
di un governo poco simpatico, quello di Matteo Renzi. Quella Debora
Serracchiani che viene sempre mandata avanti quando c’è da rispondere a denti
stretti alle critiche di chi lamenta la perdita progressiva di diritti in
cambio della perdita progressiva di potere d’acquisto. In compenso, in regione
Friuli Venezia Giulia – di cui fino a prova contraria è presidentessa –
lamentano di vederla ancor meno di quanto vedevano Renzi a Firenze quando era
sindaco.
E’ una donna colei che ormai
impiega il Parlamento della Repubblica per dare sfogo ai suoi giochi salottieri
da generone romano radical chic. Laura Boldrini trova utile dedicare intere
giornate della Camera dei Deputati a discutere se sia il caso di dire assessore
o assessora, presidente o presidentessa. E guai a chi critica, perché se lo fa è
sessista, ed è un reato gravissimo. Non c’è ancora una Lubjianka dove
perseguire i sessisti, ma diamole tempo. Nel frattempo, non sappiamo nemmeno se
abbiamo riconosciuto la Palestina, ma il gettone di presenza è corso. L’onorevole,
o onorevola, il suo dovere l’ha fatto.
Poi c’è la sig.ra ministra
Boschi. Un cursus honorum incredibile, se non consideri che è figlia di un
pezzo grosso della Banca Etruria (se nel frattempo non è fallita), vicino politicamente
al dinosauro PD Michele Ventura. O Marianna Madia, altra enfant prodige (in
francese maschile e femminile sono uguali, non hanno la Boldrini) a suo tempo
accreditata di una liaison con il figlio nientemeno che di Giorgio Napolitano. La
parità di genere invocata da Renzi all’atto della presentazione del suo governo
forse era meglio se veniva taciuta, o almeno sfumata. Forse non erano queste le
conquiste sociali che si aspettavano le donne quando cominciarono a festeggiare
quest’8 marzo.
Forse è bene continuare a spostare
lo sguardo in quelle zone del mondo dove ancora lottare per togliersi il velo o
per non subire uno stupro che andrà regolarmente impunito può fare la
differenza tra la vita e la morte. In India, o a Kobane ha ancora un senso l’8
marzo. Qui è diventato un giorno di un calendario che non scorre mai troppo in
fretta. Proponendo santi – e soprattutto sante – ormai sempre meno memorabili.
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